Nelle
viscere della terra, alla ricerca di misticismo e spiritualità, di storie che
sappiano echeggiare il tempo passato e i suoi riflessi dentro le nostre anime.
The Orphan Brigade si conferma un progetto originale, che al linguaggio
del folk unisce un percorso tematico denso, con ambizioni che questa volta lo
trascinano lontano dal cuore dell'America per approdare addrittira fra le grotte
di Osimo, Italia centrale. Heart of the Cave nasce infatti nella
nostra terra, fra la sua cultura millenaria e una religiosità che può appartenere
soltanto a certi luoghi. L'immagnario e il teatro di scena dell'album sono i cunicoli
sotto la cittadina marchigiana, nei secoli rifugio per frati e mistici, per carbonari
e massoni, combattuti fra terra e cielo, fra angeli e demoni, fra tradizione ed
esoterismo.
Dopo l'ambizioso viaggio del precedente Soundtrack
to a Ghost Story, disco rivelazione che si metteva sulle tracce dei
fantasmi della Guerra Civile americana, e di una casa che ne racchiudeva tutto
il senso della tragedia umana, Ben Glover, Joshua Britt e Neilson
Hubbard, trio di songwriter alla testa di una dozzina di musicisti riuniti
sotto la definizione The Orphan Brigade, hanno stabilito una linea priviligiata
con l'Italia dopo un fortunato tour a queste latitudini. Heart of the Cave ha
dunque preso forma e suono nei sotteranei di Osimo, dove in buona parte è stato
inciso, seguendo un labirinto di vita e morte, di mistero e rivelazione nel quale
le leggende e le testimonianze locali (Flying Joe
è la storia del santo patrono Giuseppe da Copertino, celebre per le sue levitazioni
in fase di estasi mistica) sono diventate una scusa per proiettare sensazioni
di natura personale. Si comincia con il mucchio di ossa di Pile
of Bones, spiazzante discesa a patti con il discorso sulla mortalità
dell'uomo, e si attraversano ballate dal tono corale ed epico, abbracciando a
tratti un'intensità cupa e austera (i rintocchi di The Birds are Silent).
A livello sonoro The Orphan Brigade ribadiscono una formula essenzialmente
acustica e folkie, dove mandolini e pianoforte spesso dettano la danza delle melodie,
e che si ammanta tuttavia di echi Americana e celtici degni dei migliori Waterboys
(in cui giocano un ruolo le origini di Ben Glover), di una ricerca collettiva
sulle voci evidente già in Town of a Hundred Churches
e Osimo (Come to Life) fino a toccare tonalità quasi enfatiche in Alchemy
e un retrogusto pop in The Bells Are Ringing, come se The Orphan Brigade
volessero adattare le lezione di Mumford & Sons o degli Arcade Fire più folkeggianti
al nuovo mondo delle roots americane di questi anni. Solo suggestioni, e forse
una scelta stilistica che riflette la stessa natura un po' ascetica dei brani,
peraltro sempre affascinanti nella tessitura creata da Neilson Hubbard in veste
di produttore (Vitriol, acronimo del motto
degli alchimisti "visita interiora terrae rectificandoque invenies occultum lapidem;
la commovente Pain is Gone; There's A Fire That Never Goes Out)
e accresciute dai contributi di collaboratori quali Gretchen Peters e Will Kimbrough.
La forza del disco, al tempo stesso somigliante e insolito rispetto al
"gemello" Soundtrack to a Ghost Story, è nel suo tenersi in equilibrio
fra luce e ombra, come se queste canzoni nate sotto terra cercassero infine un'uscita
verso il mondo.