David Corley
Zero Moon
[Wolfe records/ IRD 2017
]

davidcorley.bandcamp.com

File Under: the loner

di Luca Volpe (12/06/2017)

La scelta di porre alla produzione l'incolore Chris Brown forse è avvenuta per l'origine comune di entrambi come pianisti, ma chissà cos'avrebbero ottenuto John Simon o Bill Smyzick… perchè questo buon disco prosegue sulla falsariga dei predecessori, rifinisce quel grezzo piacevole che dominava agli esordi, ma non aggiunge altro. I partecipanti: Tony Scherr (ha suonato per Al Di Meola, Ani DI Franco, Bill Frisell) al basso, Gregor Beresford alla batteria e lo stesso Brown alle tastiere arrivano tutti da esperienze comuni, come il contributo di un'altra sodale del produttore ai cori, Kate Fenner. Questo lavoro è del 2017 ma suona come un abile compromesso fra l'epoca d'oro del rock country (1968-1972) e il declino di quello alternativo dopo il 2005. David Corley nello star distante dalla scorante modernità, dimostra ancora tutti i suoi pregi: chitarrista originale, pianista emotivo, cantante accorato, autore copioso; ma parimenti ciò stanno anche i suoi difetti, ovvero gli arrangiamenti.

La ripetitività individuata da Gianfranco Callieri nel recensire su queste pagine i dischi precedenti, è divenuta cifra stilistica, al punto che le canzoni potrebbero venir ridotte della metà di durata, ma Corley sceglie d'interpretarne le parti con un'intensità che le salva dai rischi della noia. Vision Pilgrim in sette minuti immette l'ascoltatore in un crocevia sublime fra il primo Neil Young e il secondo Bob Seger, un dialogo ossessivo e sublime fra chitarre e pianoforte in cui risuona un cenno al Soul di inizio anni Sessanta; Never Say Your Name indulge in un climax dilatato, Whirl è toccante per via del testo autobiografico e gioca un ponte fra Tom Waits e Jackson Browne, Splendid Now è un altro bozzetto pieno d'incastri blues nel flusso country, A Lifitime of Mornings porta l'attenzione sulla calma desolazione del suo passato di camionista. In Desert Mission si capta molto il peso di Brown, una rilettura della Band fatta nello stile cantautorale novantiano canadese, come in Splendid Now il compromesso fra i due genera un ibrido incerto fra le fonti sonore scelte finchè spicca il volo nell'epico finale, mentre i difetti emergono nelle protratte Burning Chrome e Down With the Universe.

Il grande capolavoro del disco è l'omonima: il lamento riverberato di Corley si staglia flebilmente possente sulla lotta continua fra chitarra e piano minimali, mentre la sezione ritmica incede con un ritmo ferroviario a scartamento ridotto, una risposta country ai Mercury Rev. La produzione di Brown esalta il lato già conosciuto del nostro, ma suoni più lucenti avrebbero donato una svolta alla sua carriera. Ciò detto Zero Moon, nella lunga notte di quest'epoca, è il canto lugubre e scorato di un paesaggio senza luna illuminato dalla consapevolezza di David Corley, sopravvissuto a due infarti, una vita da camionista e musicista e in fuga dalla miseria rurale dell'Indiana. Superba la copertina, uscita dagli anni 1970, anche lei lontana dalle miserie odierne. Ultima riflessione: che in questo periodo il meglio venga dai non più giovani?


    


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