Craig Finn
We All Want the Same Things
[Partisan
2017]

craigfinn.net

File Under: rock storytelling

di Fabio Cerbone (26/04/2017)

Ancora uno scorcio d'America qualunque in quello scatto di copertina, ma potrebbe appartenere a una superstrada qualsiasi del nostro paese: pioggia scrosciante, auto in frenata, un anonimo passaggio nella vita quotidiana di gente che forse si sta recando al lavoro. Non sono mai state accattivanti le immagini degli album di Craig Finn, ma di sicuro possiedono un tasso di realismo e sincerità che viaggia di pari passo con i contenuti della sua musica. La voce storica degli Hold Steady raggiunge il traguardo del terzo lavoro solista confermando le impressioni positive che il precedente Faith In The Future aveva messo sul piatto. Una maggiore ricerca melodica, arrangiamenti più ambiziosi, un suono moderno che non tradisce però il terreno di narratore folk che aveva evidenziato nella sua dimensione indipendente dalla band.

Finn resta uno storyteller fatto e finito, sensibilie catalizzatore di storie ai margini, di caratteri inchiodati in vicende umane che inseguono speranze, delusioni, ricordi amari e desiderio di empatia. We All Want the Same Things lo riassume in maniera perentoria nel titolo e colleziona una manciata di brani incentrati sulle relazioni personali e sulla necessità delle persone di riconoscersi negli stessi desideri, alla ricerca di un percorso comune. Lo fa investendo seriamente, per la prima volta, sulle diverse sfumature del songwriting, qui spalleggiato dall'apporto fondamentale di Sam Kassirer all'organo e piano e dal produttore Josh Kaufman, che aprono degli spazi inediti per la musica di Craig Finn, al tempo stesso familiare nei racconti di Jester & June e Ninety Blues e più eccentrica in Preludes e Birds Trapped in the Airport, con i loro sobbalzi di tastiere e sax, le impronte new wave e pop che si intrecciano agli accenti da rocker urbano, un po' come se Finn avesse tenuto in conto tanto Lou Reed e Bruce Springsteen quanto Billy Joel ed Elton John.

Di sicuro una ballata pianistica come God in Chicago, flusso di coscienza che si riallaccia ai ricordi adolescenziali del nostro, da St. Paul, Minnesota, non l'avrebbe potuta scrivere se non in queste nuovo contesto. Come sempre negli album di Craig Finn il peso di parole e musica assume lo stesso ruolo e il talkin' dimesso della sua voce non è territorio per tutti i palati: più che in altre occasioni però la luminosità della musica dà slancio ai brani e quando l'equilibrio fra gli elementi funziona (Tangletown, Be Honest) anche il cantato di Finn svela uno strano ed efficace approccio alla melodia. Per il rock'n'roll operaio degli Hold Steady (che qui scalcia improvviso nell'isolato episodio di Tracking Shots) c'è sempre tempo: We All Want the Same Things ci offre la colonna sonora ideale per una manciata di disperate short stories americane.


    


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