Josh Ritter
Fever Breaks
[Pytheas Recordings/ Goodfellas
2019]

joshritter.com

File Under: the many moods of Josh Ritter

di Fabio Cerbone (02/05/2019)

È un incontro sulla carta infallibile: da una parte uno dei più brillanti folksinger americani dell’ultima generazione, Josh Ritter, dall’altra una delle voci più in vista del movimento Americana, Jason Isbell. Il primo si prende i meriti della scrittura del suo decimo album in carriera, il secondo si assume il peso della produzione, chiamando a raccolta la sua fedele banda dei 400 Unit. Il connubio è perfetto, il giocattolo non si rompe, anzi, offre a Ritter la possibilità di aprire il suono ad una elettricità inedita, portando il suo linguaggio nei territori più classici della canzone rock d’autore. Fever Breaks non possiede i toni sperimentali e pop di qualche opera del passato, né forse la sintesi quasi inappuntabile raggiunta nel precedente (e colpevolmente passato inosservato) Gathering, ma dopo vent’anni – tanto è trascorso dagli esordi – attraversati raccogliendo meno di quanto meritasse, Josh ha tutto il diritto di cercare un posto al sole.

Lo fa scegliendo il sound corposo e ammiccante di Isbell e soci, trovando subito la fusione migliore delle due anime nel dittico iniziale di Ground Don’t Want Me e Old Black Magic. L’apertura scatta repentina con chitarre e melodia limpidissime, folk rock familiare per chi apprezza l’autore dell’Idaho, mentre il testo indaga demoni interiori e tratteggia personaggi degni della tradizione delle murder ballad. La seconda enfatizza l’anima rock dei 400 Unit e sferraglia in maniera inedita su liriche che hanno il tenore di una confessione. In questa “lotta” fra tumulto introspettivo, soggetti personali e piccole rivelazioni sull’America di oggi (impossibile non finirci dentro, visti i tempi), Fever Breaks è un album semplice e diretto nella sua struttura, con meno meraviglie sonore da offrire, ma una maturità invidiabile. Ritter si concede volentieri alle cure musicali di Isbell, alla visione più compatta e classicamente roots di quest’ultimo, gli chiede una spinta e probabilmente anche quella rotondità affabile negli arrangimenti che potrebbe garantirgli un nuovo pubblico nell’Ameircana, ma non perde affatto di vista la sua espressione folk, che torna armoniosa in episodi come On the Water e nella dolceamara I Still Love You (Now and Then), ennesimo racconto che rimugina sul fallimento amoroso del suo matrimonio.

La parte più avventurosa e ricca di tensione è collocata al centro di Fever Breaks: The Torch Committee snocciola il clima di paura e psicosi degli Stati Uniti contemporanei, fluttuando tra chitarre, piano e violino in un crescendo avvolgente che ricorda un intreccio fra Leonard Cohen e Nick Cave, mentre la più pacata e malinconica Silverblade, sempre asciugata nel suono di chitarre e fiddle (Amanda Shires), fa da contraltare con una storia di vendetta personale. Il rutilante country folk di All Some Kind of Dream, dal placido passo dylaniano (altro richiamo stilistico imprescindibile di Ritter), rischiara con sprazzi di bagliore melodico una riflessione sul “sogno americano” tradito dell’inclusione ("we used to fight for what we knew was right"). Losing Battles alterna nel testo luci e ombre, sfrecciando elettrica come un treno diretto tra southern rock e Neil Young in versione “Cavallo Pazzo”, prima di lasciar entrare uno spiraglio di speranza attraverso la costruzione di A New Man, desiderio di un nuovo inizio al galoppo di un radioso folk rock, e nell’intima, semplice carezza elettro-acustica di Blazing Highway Home, in cammino verso giorni migliori e un’America (e forse un mondo) più solidali.


    


<Credits>