Courtney Marie Andrews
Old Flowers

[Loose Music/ Goodfellas 2020]

courtneymarieandrews.com

File Under: back to basics

di Sara Fabrizi (22/07/2020)

E se il modo migliore per esprimere la propria anima/arte e ritagliarsi il proprio posto nel firmamento musicale fosse spogliarsi di orpelli e sofisticazioni eccessive recuperando un sound minimale? Deve essere stata questa la vocina che girava in testa a Courtney Marie Andrews nella composizione del suo nuovo imminente album, Old Flowers. Giovane, non ancora trentenne, talentuosa, dotata di una voce magnifica, di Phoenix (Arizona). I numeri ci sono tutti per diventare un pezzo grosso del country-folk americano (nelle moderne varianti rese dagli appellativi “indie” e “alternative”). E’ una donna, poi, di bell'aspetto e di una grazia umana ed artistica che ricorda Joni Mitchell. Ha grinta, inoltre, come Brandi Carlile. E’ attenta alle radici come Lucinda Williams. Ha la sensualità di Carly Simon. E ce ne sono miriadi, negli States, di cantautrici in erba che, forti delle suggestioni della loro terra e con tanto esempio di eccellenze cui attingere, hanno imbracciato una chitarra, guardato dentro il loro cuore di donne e raccontato se stesse. Lei ce l’ha fatta ad emergere, finalmente.

Old Flowers è l’album della sua consacrazione, che la fa uscire dall’underground (che poi in America troppo sommerso non è mai) e la impone con forza all’attenzione della scena musicale mondiale. Un album che arriva dopo Honest Life (2016) con il quale esce dai confini nazionali, e dopo May Your Kindness Remain (2018) che sfrutta un budget più alto e una produzione più “importante”. Se il primo era molto verace e genuino, il secondo risultava più sofisticato e musicalmente vario. Con Old Flowers Courtney Marie recupera l’essenzialità di Honest Life e la maggiore maturità, e i mezzi, di May Your Kindness Remain, per scrivere quella che è la sua formula, il suo format, la sua via. Sono fiori secchi, fragilità, un amore finito, le ferite, la malinconia, ma anche l’accettazione, la maturazione, una rinnovata forza, il riscoprirsi, il bastare a se stessa, il preferire una dignitosa solitudine a una relazione trascinata forzosamente. La giovane cantautrice ci offre un full lenght altamente autobiografico, dolorosamente intimo e riflessivo, da ricordare Blue di Joni. Ma anche pervaso da quel vigore di rinascita e propositività tutte femminili che richiamano Tapestry di Carole King.

La soluzione musicale adottata per esprimere tale tripudio emozionale è quella di un suono il più possibile scarno, così da offrirci canzoni nude e crude, di una bellezza struggente, ravvisabile soprattutto nelle due immense ballad dell’album (If I Told e Together Or Alone). Piano, chitarra, arpeggi magnifici che poi salgono con un misurato uso dell’elettronica che arricchisce la melodia liberandola dalle strette di un totally acustic. Credo fermamente che il ricorso ad un’elettronica di impatto sia la chiave per far suonare attuale, fresco ed incisivo, anche il più classic del folk. E questo disco sembra davvero aver metabolizzato benissimo questa tendenza facendola sua nella maniera più naturale. Non c’è odore di artefatto nemmeno nei brani più vivaci che magari cedono il passo ad una maggiore spensieratezza (la title track, per esempio, e It Must Be Someone Else’s Fault). E’ tutto un incastro perfetto fra intenzioni comunicative, parole, suono.

Tutto fluisce come se fosse sempre esistito. Tra attimi di cupo e dolce mestizia (Carnival Dream) e lucide riflessioni (Guilty), come fossero i due estremi di uno spettro che va dal dolore alla rinascita su cui si collocano i dieci brani di questo album così bello da essere dirompente, così in stato di grazia da non poter più essere nascosto al mondo.


    


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