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Sam Burton
I Can Go With You
[Tompkins Square 2020]

Sulla rete: tompkinssquare.com

File Under: new folksingers


di Fabio Cerbone (01/12/2020)

Non sorprende trovare questo esordio sulla distanza di Sam Burton - giovane autore originario di Salt Lake City, Utah e ora residente a Los Angeles – accolto fra le braccia della Tompkins Square, etichetta californiana di raffinato acume folk, dedita a ristampe preziose, riscoperte di anticaglie sixties e oltre, ma anche luogo di diffusione di nuovi talenti. Da qui sono partite, infatti, le carriere di William Tyler, Brigid Mae Power o Ryley Walker, soltanto per citare i più accarezzati dalla critica, e qui approda naturalmente anche Burton, emigrato in California dopo avere lasciato dietro di sé una scia di curiosità per le sue prime incisioni "fai-da-te", nella cameretta di casa, e pubblicate e diffuse su cassette e circuiti alternativi.

Il mondo che avvolge le sue ballate è molto simile a quello dei colleghi di cui sopra, sembra provenire da una bolla temporale fatta di malinconie folk blues e cartoline americane dai colori seppiati, di revival acustico e profumi pastorali al tempo di rivoluzioni psichedeliche. I Can Go with You si trattiene in equilibrio fra questa nostalgia e un tratto aggiornato ai tempi “indie” di oggi, suoni con i quali evidentemente Sam Burton è cresciuto (la sua prima band nello Utah attingeva a sonorità più rock, così raccontano le cronache, e tra le righe emerge anche la stagione "slowcore" di Red House Painters, Mojave 3 e persino dei Mazzy Star), mediando fra passato e presente. Così l’album fugge dal rischio di presentarsi come una semplice rievocazione storica, infilando semmai undici ballate aggraziate e dal tono imbambolato, avvolte in languori ora sfiorati da country cosmico, ora da un tono folk rock che non manca di resuscitare la memoria di eroi sfortunati come Tim Hardin, Jackson C. Frank o Fred Neil (che pensare altrimenti di un gioiello intitolato Wave Goodbye?).

Con il dovuto rispetto delle proporzioni e senza mettere lo stesso Burton con le spalle al muro per confronti spesso insostenibili, la dolcezza fluttuante di Nothing Touches Me e il vagabondare attonito e agrodolce della stessa I Can Go With You ci introducono a una poesia delle piccole cose, american music garbata, uniforme nei suoi tempi lenti, dove il ruolo giocato dagli arrangiamenti e dalla produzione di Jarvis Taveniere (non a caso al lavoro in passato con Woods, Allah Lahs e Purple Mountains) è essenziale per creare l’atmosfera. E su quest’ultima sembra insistere buona parte del fascino di questo disco, che se ha un difetto (trascurabile) è proprio nella sua indifferenza al cambio di passo: scintillanti chitarre acustiche e folate di steel guitar, dolci pianoforti, archi e contorni di voci femminili si susseguono senza soluzione di continuità, a volte sospese nella nebbia mattutina (il risveglio di Further from the Known, la rarefazione della melodia di I Am No Moon), altre pronte ad assumere fragranze più agresti (Stagnant Pool), in un clima generale che accentua costantemente i riverberi, l’eco confortevole di armonie scovate fra gli amati sixties (She Says that She Knows, una Can It Carry Me dall’effluvio jazzato), fino al calare del crepuscolo di una cullante Tomorrow is an Ending.

Folk per cuori infranti, che ancora credono che una ballata possa acquietare l'anima.


    



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