John Craigie
Asterisk the Universe
[
Zabriskie Point
2020]

Sulla rete: johncraigiemusic.com

File Under: laid back americana


di Fabio Cerbone (01/08/2020)

Da dove sbuca John Craigie, quarantenne songwriter californiano che sembra avere già una discreta carriera alle spalle e di cui fino ad oggi non abbiamo mai sentito parlare? Misteri di una scena musicale ormai polverizzata, che nel caso di tutto quel sottobosco folk americano ne aumenta il fascino e anche l’anonimato, quasi fosse una vocazione o un destino, noi costretti a inseguirne i personaggi che sopravvivono ai margini. Una cosa è certa, Asterisk the Universe è un album che non passa inosservato, quanto meno se avete a cuore la canzone d’autore roots più umorale e intelligente, quella che prova a raccontare il mondo e le esperienze del musicista e dell’uomo con gli occhi dell’ironia e della tenerezza.

Se ne sono già accorti in molti, se è vero che il disco è probabilmente il primo a offrire qualche attenzione sulla stampa nazionale a Craigie, uno che tra festival sparsi, tour di spalla e comparse radiofoniche non ha mai smesso di vagabondare, pubblicando una decina di lavori a partire dal 2009, divisi fra studio, live e persino raccolte di cover. Il suo tempo sembra essere qui e adesso, con dieci canzoni e una stringata scaletta che sono il riflesso dell’understatement della sua musica, un matrimonio riuscito, e assai curioso, fra John Prine e Al Green, se concedete l’azzardato accostamento. Un folk rock spiritato, idealmente collocato sulla linea che scorre tra Nashville e Memphis, roba che un collega come Todd Snider non riesce più a offrire da anni, e che saltella su ritmi funk e un pigro laid back sudista figlio naturalmente di JJ Cale (del quale, illuminazione, viene ripreso il classico Crazy Mama, in tutta la sua assonnata integrità).

Per incidere e immortalare, come afferma lo stesso John Craigie, questi bozzetti di vita on the road, di incontri e memorie, il nostro protagonista si è infilato in un capanno/studio di Bodega, nord della California, con le voci del trio folk delle Rainbow Girls (le sentite di sfuggita in Used It All Up), una piccola sezione ritmica, l’organo di Lorenzo Loera e le tastiere di Jamie Coffis (Coffis Brothers), dando sfogo a un’indole rilassata, tanto nel tono della voce quanto nella costruzione degli arrangiamenti, che partono dall’orizzonte acustico di Hustlin’ e strada facendo costruiscono quel miscuglio di carezze old time e groove memphisiano che sarà la chiave di lettura dell’intero Asterisk the Universe. L’aria è calda e sudista ma non soffoca l’ascolto durante l’esecuzione di Don’t Ask, mentre il primo singolo Part Wolf insiste nel placido groviglio, portando dritti al cuore funk di Climb Up, sorta di ode alla perseveranza del cambiamento. Strano davvero che tutta la sceneggiatura arrivi dalla California, perché non ne ha l’aspetto e neppure il suono: John Craigie si accomoda sui viluppi dell’organo e l’agrodolce melodia in Son of a Man, sul fervore gospel misto alla lunga strada del folk rock in Don’t Deny o fra le trame dense e incupite del piccolo capolavoro Vallecito, manco fosse uscito da una session improvvisata di Dylan ai Muscle Shoals con Donnie Fritts e simili personaggi da culto sudista.

Un chiacchiericcio di fondo, a riprova dell’informale ambientazione delle registrazioni, introduce il finale di Nomads, dolciastro abbandono per piano barrelhouse e armonica, ballata in tono da preghiera rivolta a San Cristoforo, protettore di tutti i viaggiatori e i senza meta, musicisti in prima fila.


    



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