Margo Price
That's How Rumors Get Started

[Loma Vista 2020]

Sulla rete: margoprice.net

File Under: country rock diva


di Fabio Cerbone (01/08/2020)

Volata da Memphis a Los Angeles e lasciata la confortevole zona della Third Man Records di Jack White (che ne sponsorizzò l’esordio), in favore delle ambizioni da prima stella di una major discografica, Margo Price compie il passo definitivo: non più novella cuginetta di Emmylou Harris e ambasciatrice di un honky tonk sanguigno, ma sorella minore di Stevie Nicks, alla ricerca di un sofisticato equilibrio tra campagna e città, fra country dai sapori vintage ed eleganza pop rock. Attraversato da bramosia e irrequietezza, con una produzione che si impone subito come l’elemento decisivo, That's How Rumors Get Started è il disco che spezza i legami, apre ai desideri e mette al centro la voce di Margo, il suo ruolo di prima donna, con i pro e i contro di una simile operazione.

Tirate le somme, e perdonati un paio di scivoloni lungo il percorso, ne esce vincitrice con un suono e uno stile per le mani, sorretta dai contributi di una band stellare che l’amico, e altrettanto ambizioso musicista, Sturgill Simpson le ha messo a disposizione: sono presenti, infatti, il piano e l’organo di Benmonth Tench (Tom Petty & The Heartbreakers) a fare la differenza, così come le chitarre di Matt Sweeney e del compagno di Margo, Jeremy Ivey, e persino il basso di un turnista di lusso come Pino Palladino. Il sound di That's How Rumors Get Started ne assorbe tutto il mestiere, senza tuttavia togliere quel piglio di freschezza ed energia che appartiene soltanto all’interpretazione della protagonista. Margo Price non sembra voler rinunciare alle sue radici, ma allo stesso tempo non rifiuta il nuovo ruolo da diva, arroganza compresa. Così il suo castello dei desideri non scricchiola sotto i colpi dell’impresa: le danze si aprono con i toni nostalgici della title track, che pare sbucare dalla California dei Fleetwood Mac di Rumours, pop di classe spruzzato da sentimenti Americana, lasciando quindi entrare l’aria frizzante di un mid tempo come Letting me Down.

Quando giungono i saturi riff elettrici di Twinkle Twinkle, risulta chiaro che l’album cavalcherà tutte le gradazioni del cuore di Margo: spezzato ma indomito, affronta intime questioni sentimentali ma anche riflessioni sul prezzo del successo e l’immancabile tensione dell’essere musicista in perenne viaggio. L’alchimia migliore è raggiunta nelle sofisticazioni tra pop e soul di Hey Child, con un coro ad innalzare la temperatura gospel, e della gemella Prisoner of the Highway, chitarre e sventagliate di organo che sono state colte presso gli East West Studios di Los Angeles, ma sotto le ceneri bruciano southern soul memphisiano. Dalla dimensione raccolta di Stone Me alla passione sprigionata in Gone to Stay, la forma ballata domina incontrastata l’anima del disco, ricordando un tentativo molto simile fatto anni fa dalla collega Tift Merritt (nell’incantevole Tambourine), ma non altrettanto fortunata a livello critico.

Capita, e così Margo Price raccoglie oggi, persino con meriti eccessivi, il frutto dei semi sparsi da altre in passato, sfrecciando con il vento in poppa: il giocattolo le sfugge di mano raramente (Heartless Mind vira tra pop sintetico e new wave come volesse diventare la nuova Blondie; lo struggimento bluesy di What Happened to Our Love si gonfia con troppa enfasi nel finale), tanto che nella tensione ritmica inesplosa di I’d Die for You, una rincorsa per voce e chitarra elettrica, è racchiusa tutta la fierezza dell’autrice.


    


<Credits>