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Weyes Blood
And In The Darkness, Hearts Aglow
[Sub Pop 2022]

Sulla rete: weyesblood.com

File Under: folk-pop muse


di Marco Restelli (01/12/2022)

Sono sincero, la curiosità di ascoltare l’album di cui tutti parlano era tanta. Il nome di Natalie Mering, in arte Weyes Blood, sta in realtà girando un po’ ovunque, sul web e sulle riviste specializzate, e da diverso tempo, vista la sua carriera ormai decennale (esordì nel 2011 con l’EP The Outside Room). Da quando però ha pubblicato And In The Darkness, Hearts Aglow sembra che il suo status di next best thing sia ulteriormente cresciuto. Intanto cominciamo col dire che il sound scelto dall’artista di Los Angeles e dal suo co-produttore Jonathan Rado, rispetto all’ultima prova in studio, ha spostato l’asse verso l’indie-folk, lasciando un po’ meno spazio alle tastiere che dominavano maggiormente in Titanic Rising (2019).

L’effetto principale di questo cambiamento di stile è che se prima il punto di riferimento immediato per l’ascoltatore poteva essere Lana Del Ray e il suo languido approccio vocale, adesso, appena parte l’iniziale morbida ballata It’s Not Just Me, It’s Everybody, la mente va subito alla mai dimenticata Judee Sill e non solo per il timbro vocale, decisamente vicino a quello della Mering, ma anche e soprattutto per la sua tendenza vintage. Questo brano è l’ideale porta bandiera estetico del disco anche dal punto di vista del tema trattato, che dominerà tutto il resto, vale a dire la solitudine che la pandemia ci ha costretto ad affrontare con versi piuttosto espliciti, dai quali emerge la consapevolezza di non sentirsi più gli unici ad averla vissuta in modo cosi intenso e doloroso (“Has a time ever been more revealing, That the people are hurting? / Oh, it's not just me I guess it's everybody / Yes, we all bleed the same way”).

Anche il piano che scandisce l’intro della più ritmata Children Of The Empire, prima che il brano si carichi di altri strumenti, ha la capacità di portarci indietro nel tempo. Qui Weyes Blood parla delle nuove generazioni che sentono il loro futuro in pericolo da parte di chi oggi è al potere. Grapevine è un altro episodio riuscito che inizia più acustico, ma lascia presto spazio a suoni elettronici che contribuiscono a dilatarne l’effetto avvolgente. Twin Flame è il pezzo più simile al succitato Titanic Rising, e ricorda molto i lavori di Maria Taylor. Per forza di cose risulterà anche il più lontano da ciò che i nostri lettori più stradaioli sono abituati ad ascoltare. Con The Worst Is Done si torna a un folk più accattivante e in fin dei conti risulta forse la canzone meglio riuscita dell’intero And In The Darkness, Hearts Aglow, con la sua melodia radiofonica che al primo ascolto sa emozionare. Anche qui si parla della pandemia e la cantautrice si lascia andare ai rimpianti (“I should've stayed with my family / I shouldn't have stayed in my little place / In the world's loneliest city / We're not meant to be our own angels all the time / No one coming by to see if you're alive”).

Tirando le somme, questo album da una parte può dirsi musicalmente non adatto a tutte le occasioni, vista la malinconia che lo contraddistingue, ma dall’altra sarà in grado di toccare le corde più sensibili di coloro che vorranno approfondirne l’ascolto con la giusta predisposizione d’animo. Non un capolavoro forse, ma certamente un ottimo disco.


    



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