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The Delines
The Sea Drift
[Decor/ Audiglobe 2022]

Sulla rete: thedelines.com

File Under: languori americani


di Donata Ricci (01/02/2022)

Leggo in questi giorni dibattiti accesi intorno alla domanda: è legittimo che un songwriter modifichi il proprio modo di comporre con l’avanzare dell’età e con l’esperienza acquisita? Un quesito che ha un vizio di fondo talmente macroscopico da renderlo nullo. Comunque sia The Delines sembrano restarne indifferenti visto che, giunti al quarto disco - considerando anche l’anomalo Scenic Sessions – non cambiano di una virgola la loro musica. E che musica. Qui risiede forse la risposta all’interrogativo, per chi vuole capire. La band di Portland, Oregon, è di quelle che si fanno ritrovare e quando ascolti un nuovo lavoro pensi “eccoli qui, mi mancavano” perchè le loro sonorità, così come le tematiche dei testi, creano dipendenza affettiva.

Con The Sea Drift si ripropone già nel titolo il tema dell’acqua, filo conduttore fin dai tempi fluviali dei Richmond Fontaine, quando le autostrade suonavano come fiumi e ci si sedeva sulle rive di un affluente inquinato come il Willamette per provare a ricostruire un’esistenza. Poi i fiumi più o meno arrivano al mare, alcuni sfociano nel Golfo del Messico ed eccoci pervenuti al nuovo disco, annunciato nelle vesti di “una raccolta di canzoni e di storie trovate andando alla deriva, up and down, lungo la Costa del Golfo”. E il Golfo è lì sulla bellissima copertina, un luna park marino che profuma di Coney Island ma in realtà sta a Galveston, Texas orientale. Il Golfo è presente anche nello strumentale The Gulf Drift Lament in chiusura di disco, con la tromba che Cory Gray sfiora appena, a conferma che The Delines nei brani strumentali si superano: sono colonne sonore in miniatura che s’insinuano tra i cantati, proprio come fa l’altro strumentale Lynette’s Lament, cui spetta il compito di ricongiungere il Willy Vlautin compositore con lo scrittore.

Perché Lynette è la complessa protagonista del suo ultimo romanzo La notte arriva sempre (Jimenez Edizioni 2021) e perché questi undici nuovi brani sono a tutti gli effetti racconti brevi, carverianamente asciutti, di individui ai margini e della loro vita agra, della motel life, di fughe, periferie metropolitane e highways inquiete. The Sea Drift
continua questa narrazione, ordinata e attenta alla circolarità: se si chiude con il lamento del golfo, dal canto suo il brano di apertura Little Earl (consegnato alla rete come singolo apripista) racconta un’insanguinata fuga che si consuma proprio lungo quella costa e rilascia una dichiarazione che più metaforica non si può: “Non ha mai guidato di notte e continua a perdersi”. C’è invece aria di ritrovamento nella mezz’ora abbondante di The Sea Drift, a partire dalla produzione di John Askew fino ai musicisti di sempre: il jazz drummer Sean Oldham, il bassista Freddy Trujillo, oltre al già citato Cory Gray alla tromba, tastiere e chitarre. Ma è soprattutto la cantante Amy Boone che ritroviamo del tutto, perché questo è il primo disco di materiale completamente nuovo inciso dopo il terribile incidente d’auto del 2016, che aveva posto una seria ipoteca sulla sua permanenza nella band. Ma Amy ha uno spirito combattivo ed eccola di nuovo in sella. La band l’ha aspettata e anche questa è una storia bella, che meriterebbe di essere raccontata. La voce di Amy Boone è essenziale all’economia di The Delines, si fonde alla perfezione con lo spartito e con gli arrangiamenti misurati e insieme creano composizioni di incantevole raffinatezza, evocative come poche.

Per questo lavoro si sono ispirati – parola di Vlautin – a Tony Joe White, passione che Willy ed Amy hanno in comune; pare che durante la preparazione del disco le loro conversazioni tornassero spesso alla Rainy Night in Georgia che il musicista della Louisiana incise nel 1969. D’altronde non c’è dubbio che la musica di The Delines sia radicata nel passato, ma niente di stantio o di eccessivamente tradizionale, piuttosto suggestioni profonde ottenute con pochi tocchi, come in Hold Me Slow oppure in All Along the Ride, un brano quest’ultimo che ripropone le sonorità avvolgenti di Roll Back my Life e di Waiting on the Blue (da The Imperial).

Nessuno si scandalizzerà, mi auguro, se considero Willy Vlautin cantore della malinconia. Rivalutiamolo, dai, questo sentimento, che è tra i più autentici e artisticamente prolifici che cuore umano possa provare. Ho il sospetto che l’autore stesso approverebbe, se già nel 2009 intitolava una canzone Maybe We Were Both Born Blue (Forse siamo nati entrambi malinconici). E allora selezioniamo serenamente la traccia numero sette, quattro minuti di languore e di note sospese che sono il capolavoro del disco. Già il titolo Surfers in Twilight è suggestivo. Perché ce li vedete dei surfisti, iconograficamente giovani e adrenalinici, con un crepuscolo come quinta? Occorre una sensibilità superiore.


    


<Credits>