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Ian Noe
River Fools & Mountain Saints
[Lock13 Records/ Goodfellas 2022]

Sulla rete: iannoe.com

File Under: my old Kentucky home


di Fabio Cerbone (01/04/2022)

Parla, scrivi e quindi canta di quello che conosci: il vecchio adagio della narrativa americana più realista si adatta anche all’esperienza dei songwriter, regole che insegnano nelle scuole di scrittura e che Ian Noe forse ha imparato da solo, rubando i segreti dai dischi di qualche maestro che ha mandato a memoria. Il “piccolo mondo” ritratto in River Fools & Mountain Saints - titolo che gli è arrivato in sogno, prima di iniziare a incidere qualsiasi nota, così racconta - è quello della Lee County, Kentucky, terra povera di minatori, luogo di nascita e di crescita del musicista, già tratteggiato con forza in quello splendido esordio di tre anni fa, Between the Country.

Se allora c’erano Junk Town e Meth Head da cantare con versi spietati, oggi si rincorrono, in Strip Job Blues 1984, Tom Barrett, Ballad of a Retired Man, Lonesome as it Gets, immagini di veterani e vecchi soldati, di camionisti fiaccati dalla strada, di gente che tira a campare con metodi poco legali e di un ambiente, quello della regione degli Appalachi, avvolto in una nebbia di inquinamento, esteriore e interiore al tempo stesso (Appalachia Haze, spettrale e bellissima, con la pedal steel che pare sottolineare l’emergere lento e inesorabile della foschia sulla montagna). Nel mezzo ci sono comunque l’amore e il desiderio di rompere l’isolamento, anche causato dalla pandemia, quello che emerge forte e chiaro nell’apertura da manuale del roots rock di Pine Grove (Madhouse), primo singolo scelto anche per indicare una piccola, cruda svolta elettrica che tuttavia si farà strada raramente in River Fools & Mountain Saints, dal risonante battito di POW Blues all’evocazione orgogliosa delle tradizioni dei nativi americani in Burning Down the Prairie, tagliata a fette da un’acida chitarra blues.

Un disco che nell’insieme non sposta di una virgola il senso di fare musica di Ian Noe, avvolto dal fantasma del mentore John Prine, che sbuca in ogni anfratto di queste note, ma ne scolpisce con più precisione i sentimenti: la comunità è tutto, ma non per una cieca, ottusa chiusura al mondo, semmai per trovare il senso più profondo delle esistenze che canta. E allora River Fool, antica danza hillbilly per chitarre e mandolino che sembra davvero uscire dall’omonimo esordio di Prine del 1970, e Mountain Saint, malinconico racconto folk rock da America perduta di provincia, sono davvero due facce della stessa medaglia, due scorci musicali che si guardano compassionavoli dalle sponde opposte del fiume. River Fools & Mountain Saints si trasforma così in un romanzo musicale che parla la stessa lingua di certi scrittori che hanno illuminato quell’angolo di heartland americano: c’è la grazia rurale delle storie di Wendell Berry (Jayber Crow, Lindau) e la spietatezza di Chris Offutt (Country Dark, minimumfax), magari passando per il più recente David Joy (Queste montagne bruciano, Jimenez).

È questa la colonna sonora ideale, che Ian Noe ha registrato peregrinando per due anni con pazienza, aiutato tra gli altri dal basso di Jack Lawrence (The Raconteurs) e dalle tastiere di Derry deBorja (Jason Isbell & the 400 Unit), ma soprattutto da un nuovo produttore cercato insistentemente a Nashville, Andrija Tokic, che ha sostituito Dave Cobb senza colpo ferire: nonostante la provenienza da un’area più sensibilie al linguaggio dell’indie rock e del pop, non ha saggiamente toccato gli spigoli e le verità dell’autore Ian Noe, semmai spingendolo a sentirsi più libero di sperimentare. Piace pensare che sia nata così Road May Flood/ It's a Heartache, l’unico finale possibile per questo disco: è un colpo al cuore, una lacrima versata per la terra martoriata del Kentucky, quattro accordi che aggiungono di strofa in strofa piccoli dettagli, un piano, una steel guitar e finanche un dolce tappeto di archi, tratteggiando la vita intera di un uomo nello spazio di pochi versi. Ci riescono solo i fuoriclasse.


    


<Credits>