John Fogerty
Wrote a Song For Everyone
[Columbia  
2013]

www.johnfogerty.com


File Under: amarcord rock

di Fabio Cerbone (29/05/2013)

Per lungo tempo John Fogerty ha dosato presenza e forze, complice anche una delle più dure battaglie legali che la storia del business musicale ricordi: la cadenza decennale dei suoi ritorni discografici era un evento che in passato ha rafforzato la qualità di Centerfield e Blue Moon Swamp - forse gli ultimi, significativi sforzi artistici - e che ha forgiato in qualche modo la statura leggendaria del personaggio, l'attesa di un grande padre della nazione rock americana, sotto la cui ala protrettrice ci si poteva rifugiare, solamente con l'enorme rispetto che si deve ai classici. Il vero problema è che da un decennio abbondante Fogerty ha deciso, coscientemente o meno, di aumentare l'effetto di un songwriting auto-celebrativo e indulgente con se stesso. Dunque, se le coerenza è ancora un valore, Wrote a Song for Everyone è l'apice indiscusso di questo percorso, ennesima riflessione sul proprio immortale songbook e oggetto dei desideri dato in pasto ai sostenitori instancabili, che arriva a riproporre come nulla fosse una manciata di capolavori riletti con la formula stantia degli ospiti.

Apoteosi del citazionismo e della rievocazione, il disco aggiunge, come dovesse in parte giustificarsi, due inediti: dalla saga "fogertyana" di Mystic Highway, corale roots rock che ruzzola sulla strada e si immagina una canzone a due tempi di marcia, alla più dura virata blues di Train of Fools, stile che non ha intenzione di reinventarsi tanto quanto le camice a quadri del nostro. Intorno a tutto ciò ruotano una dozzina di immortali classici che non scambiereste mai e poi mai con gli originali, seppure esposti con piglio brillante e infine gradevole. D'altronde, che l'abc del rock'n'roll delle radici passi attraverso queste canzoni (e il sound dei Creedence) è persino una banalità fuori luogo, quel John Fogerty che prima di tutti, già in piena bolgia psichedelica e "estati dell'amore", rifletteva sul patrimonio dell'american music, creando ponti con il passato e traducendo alla giovane nazione ribelle il significato profondo, i misteri che si celavano dietro un vecchio blues, una ballata country, una leggenda folk. Ciò che resta difficile comprendere è se Kid Rock possa davvero offrire qualcosa di inedito a Born on the Bayou (e la risposta è no, dovreste già saperlo) o se Keith Urban (in Almost Saturday Night), Zac Brown (innocua la sua Bad Moon Rising con accenti hillbilly), Brad Paisley (che gigioneggia con duello di Telecaster in una fotocopia di Hot Rod Heart), Miranda Lambert (suo il duetto nella title track, con un assolo indigeribile, anzi che grida davvero vendetta, di Tom Morello) o infine Alan Jackson (una sciapa Have You Ever Seen the Rain la sua) siano veramente le uniche direzioni possibili.

E ancora: qualcuno sente davvero il bisogno di aggiungere Dave Grohl (sempre generoso, per carità, nel suo atteggiamento da rock'n'roll fan) alla galleria di chi si è misurato con Fortunate Son? La sua presenza aumenta senz'altro la temperatura hard rock del brano, ma non offre comunque nuove prospettive alla voce dello stesso Fogerty. Il nostro eroe da par suo si mostra spesso umile e fa da spalla, a volte trova finanche la chiave giusta: accade con i figli Shane e Tyler in una Lodi trasformata in uno spigliato swamp blues, o con il combattivo spirito di un Bob Seger in discreto spolvero con Who'll Stop the Rain (e quel piano in partenza sembra un anello di congiunzione con Against the Wind). La sensazione tuttavia è che se Fogerty avesse insistito sulla strada di brani meno noti (i deliziosi Dawes in tenuta West Coast con Someday Never Comes, brano dimenticato da Mardi Gras), ma soprattuto avesse scelto partner più affini per reale spirito musicale (perché non pensare ad esempio a Drive-By Truckers, Lucero, Deer Tick, Hollis Brown, Lee Bains… solo per fare qualche nome più fresco), forse il risultato avrebbe preso un'altra piega rispetto a questa parata di mainstream country liscio e digeribilissimo.


    


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