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Darden Smith
Western Skies: orizzonti americani

- a cura di Marco Denti -

Il vento spazza le creste montuose. Il deserto respira attraverso la pioggia. Il viaggiatore conosce il tragitto: l’ha fatto una mezza dozzina di volte, migliaia e migliaia di chilometri, senza indicazioni o punti di riferimento. Avendo letto Oltre la frontiera di Cormac McCarthy, sa solo che “la forma della strada è la strada stessa. Non c’è altra strada che possegga quella forma, al di fuori di quella”. È un punto di vista importante perché proprio lì, tra la terra aspra e spigolosa e i cieli screziati, Darden Smith si è accorto che “il mondo si è mosso in modo così profondo, ed è stato affascinante attraversarlo e prendere atto di ciò che stavo vedendo tutto intorno a me”.

Il West è un territorio singolare, rigido e sfuggente, dove reale e immaginario collidono: per vederlo, la contemplazione è uno degli elementi portanti ed è come se Darden Smith avesse cercato di far affiorare qualcosa sepolto nella sabbia o nascosto nel vento e si fosse accorto che è tutto “vuoto” e “aperto”, che è poi un aggiornamento western delle prospettive “dentro e fuori”. È quello che sta in mezzo a definire lo spazio di un viaggio e di una visione frutto più della percezione, che della fantasia.

C’è un battito insistente in Miles Between, la canzone che ha il compito e il dovere di introdurre l’atmosfera generale di Western Skies (Bull by The Horns, 2022). Ha qualcosa di meccanico, ricorda un motore o le gomme su un fondo accidentato, e su quella cadenza, e due accordi di pianoforte, Darden Smith canta “too much noise I lose my voice” (“Troppo rumore, ho perso la mia voce”) ed è così che comincia tutto finché non si scopre quello che Sam Shepard in Diario di lavorazione definiva: “Un suono, un ritmo, oppure qualcos’altro ancora. Una musica. Certe volte arriva il silenzio assoluto, e allora vado in visibilio. È proprio così che accade: te ne stai lì in un campo blu e all’improvviso ogni cosa si ferma. Un miracolo. Poi riprende tutto. A turbinare”. I cieli (e le stelle) del West qui trovano un senso compiuto.

La storia dietro Western Skies merita di essere scoperta perché è un caso singolare. L’ultimo album di Darden Smith, nel 2017, si chiamava Everything e il titolo suggeriva una sorta di punto di non ritorno nella sua storia, come ha ammesso lo stesso songwriter: “Pensavo che sarebbe stato il mio ultimo disco. Sentivo che quindici album forse erano abbastanza, ma poi ho cominciato quei viaggi”. Parlava di alcuni percorsi di qualche migliaio di chilometri seguiti all’inizio del 2020, quando era impossibile viaggiare in aereo, e lui doveva muoversi per sostenere un paio di progetti musicali a supporto dei veterani delle guerre americane. I motivi di quei lunghi trasferimenti sono andati via via sfumandosi mentre il paesaggio cominciava a farsi più ossessivo. Qualcosa deve essere scattato quando Darden Smith, già assiduo frequentatore della fotografia, ha scoperto una vecchia Polaroid e l’ha scelta come compagna di viaggio. Nel deserto, la logica dello sguardo asseconda di più un’attenzione interiore, e nell’obiettivo della Polaroid sono finiti frammenti, elementi colti al volo, piccoli squarci del panorama, mentre Darden Smith continuava a prendere appunti, senza alcuna destinazione precisa, forse soltanto per non perdersi del tutto perché come diceva Sam Shepard in Quello di dentro: “Il tempo ci ha sbattuti qui come naufraghi, senza sentimento”. Un teepee stracciato. Mezza locomotiva. Una nuvola e il suo riflesso. Pneumatici abbandonati. Un ritratto acquatico. Un pony bianco. Un’insegna pubblicitaria. Compra uno, ne avrai un altro in omaggio. Girasoli e cactus. Sfumature. Impressioni. Uno o più punti di partenza.

© Western Skies Photo Gallery: dardensmith.com/western-skies-photo-gallery

Tornato nel deserto per ritrovarsi, e per ritrovare qualcosa di inafferrabile, nella solitudine della sua macchina, Darden Smith ha cominciato a dettare le parole dentro uno smartphone: “Non sono mai riuscito a scrivere così in trent’anni. Stavo solo parlando nel mio telefono e lasciavo scorrere tutto in una forma libera”. La costruzione dell’album ha seguito lo stesso, intuitivo, processo delle fotografie e dei viaggi in sé. Le parole hanno trovato un significato dentro le canzoni, proprio come le canzoni ha preso forma dentro i suoni. In fondo alle sue trasferte, Darden Smith si è chiuso in uno studio di registrazione e ha inciso venticinque canzoni solo con la chitarra o il piano. Ricordava: “La mia seconda notte laggiù, ero fuori dallo studio e stavo guardando il sole tramontare quando è successo qualcosa di strano. Lì ho capito subito a cosa stavo lavorando. Era un libro. Ed era un disco. Il libro avrebbe avuto tutte le Polaroid e i saggi che stavo raccogliendo e si sarebbe chiamato Western Skies”. È uno stato della mente, che somma musica, fotografia arti visive come già successo con Butch Hancock, Tom Russell, o Terry Allen ma la costruzione di Darden Smith è più rarefatta, anche se in realtà è molto intuitiva, frutto delle peregrinazioni solitarie dove la geografia si è riflessa nell’anima.

Ed è così che Darden Smith ha cominciato: mostrando le sue fotografie ai musicisti, un modo curioso per iniziare le registrazioni di un disco, ma che nel caso di Western Skies offre indizi precisi nell’indicare quali sfumature e quali emozioni tradurre nel loro approccio alla musica e alle canzone: “Ho mostrato a tutti le mie fotografie e gli ho spiegato le vibrazioni che provato e loro hanno capito immediatamente”. Lo schema è insolito, ma produce una costruzione misurata, persino parsimoniosa nel dispensare suoni e accordi, con gli strumenti collocati in geometrie di contrappunti destinati a creare un’atmosfera più che una struttura sonora.

La visione è centrata e accurata, anche se le Polaroid sono sfocate, ma fa parte del gioco, nel tentativo di attenuare quello che Edward Abbey in Desert Solitaire chiamava lo “shock del reale”. Le inquadrature sono un’introduzione insieme ai saggi (dove Darden Smith negli anni ha scritto di Joe Ely, John Prine, Jerry Jeff Walker, Rodney Crowell, Hank Williams, Charlie Haden, Johnny Cash) che articolano una considerazione dettagliata del West: l’ottica definisce lo spazio, sfuma i contorni e lo riposiziona in una dimensione più congeniale, meno posticcia e artefatta che altrove, di sicuro più asciutta e riflessiva. Il sound di Western Skies ne è una naturale conseguenza: plasmato attorno alla voce e alle canzoni, levigato nei dettagli, ricco di spunti, anche se è chiaro che tutto ruota intorno alla chitarra (acustica) e al pianoforte di Darden Smith.

I nomi coinvolti sono una garanzia e tendono a mettere una firma senza farsi notare. Basta pensare agli accenti ritmici che danno un groove particolare alle canzoni, merito del batterista Ramy Antoun, provare per credere i tocchi soulful di Turn The Other Cheek. O a Charlie Sexton che alle chitarre dispensa accordi e fraseggi quel tanto che basta a mantenere la tensione (elettrica) ai livelli di guardia, senza una sbavatura, ed è un lavoro difficile, ma lui lo sa fare alla perfezione. E così in quella linea melodica che va da Jackson Browne a Marc Cohn in Running Out Of Time, gli archi sono arrangiati da David Mansfield e hanno una loro logica perché sottolineano una distanza tra amanti, che può essere misurata in centimetri o in anni luce perché se qualcosa c’è stato, è stato perfetto solo un piccolo momento.

Poi sono sufficienti la nota di un sintetizzatore qui, una pedal steel là, Glen Fukunaga al basso, un po’ di armonie vocali, il tutto organizzato con moderazione da Michael Ramos (tastierista qui in veste di produttore) in un habitat molto curato e poco invasivo, che sembra la traduzione sonora del suggestivo formato delle Polaroid. A volte basta anche meno, come nella sinuosa I Can’t Explain: Darden Smith canta con una voce come se Chet Baker fosse riapparso in una taverna sul border, con un arrangiamento limitato ma di gran classe e la stessa procedura appartiene, in modi diversi, anche a I Don’t Wanna Dream Anymore, e soprattutto alla stessa Western Skies, una ballata che splende di una luce tutta sua, vuota e aperta.

Le canzoni sono asciutte come se avessero assorbito l’aria tersa delle “flatlands” ed è per quello che hanno tutte un senso cinematico. Si sono raggrumate attorno a una visione: il suono del deserto e della desolazione, il mood della strada e del movimento, qualcosa di polveroso e decadente che affiora nelle canzoni, che hanno sempre una forte vena romantica, come se infine Darden Smith avesse trovato una nuova voce, pur ripartendo dal “suolo nativo” da cui aveva cominciato nel lontano 1986. Sa essere anche drammatico quando spunta Los Angeles, la capitale del deserto, la città che non c’è, dove spazio e tempo collassano. La splendida armonica morriconiana di Mickey Raphael in Los Angeles è lì puntuale a ricordare l’altro West, quello celebrato sullo schermo con tutto il suo catalogo di miraggi e illusioni. Una tappa inevitabile, ma in realtà soltanto una deviazione: come scriveva Clare Vaye Watkins in Deserto americano, lungo le strade si è delineato “un paesaggio lunare spazzato dal vento” finché “Los Angeles nella sua abbondanza svaporava pian piano”. La sua è una prospettiva distopica, ma non è troppo distante dall’effetto dei contrasti che si distinguono nitidamente in Western Skies. È in Not Tomorrow Yet che si comprende come passato e futuro nel deserto siano annullati. Lì dentro in quella melodia, c’è tutto il significato di Western Skies, che è uno di quei rari dischi che comunicano molto senza spendere o pretendere troppo, che lasciano spazio, vuoto e aperto, proprio perché spalancano un’intera visuale.

Uno dei testimoni incontrati da Alex Shoumatoff, nel corso delle esplorazioni che hanno portato a Leggende del deserto americano, diceva che nel deserto c’è solo “continuità” ed è così in Western Skies dove ci sono ombre, “fantasmi, eroi, amore e pericolo”, ma soprattutto un orizzonte, così lontano, eppure così vicino.


    



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