Non avevo mai ascoltato
prima d’ora i californiani The Furious Seasons, e immaginandone
la ragione sociale desunta da un vecchio e omonimo racconto di Raymond
Carver, addirittura risalente ai tempi in cui lo scrittore frequentava
l’università, mi ero predisposto a farlo con istintiva indulgenza. Arrivato
tuttavia nei pressi di Your Irish Funeral, brano numero nove nella
scaletta di La Fonda e come tutto il resto — titolo dell’album,
versi, talvolta strofe intere — dedicato alla scrupolosa citazione di
luoghi realmente esistenti (o esistiti) nel territorio compreso tra gli
asfalti di Los Angeles e le colline di Hollywood; e sentendo cantare di
questa cerimonia funebre in memoria di un amico-non-più-amico il quale
avrebbe voluto, per le sue esequie, l’accompagnamento di Jeff Buckley,
Avett Brothers e Paul Simon, mi sono arreso a una considerazione evidente:
il qui presente trio, composto dai fratelli David e Jeff Steinhart (chitarra
e voce il primo, basso e tastiere il secondo) nonché da Paul Nelson alla
Weissenborn, sarà anche versato nel (ri)percorrere, con minore efficacia,
quanto scritto da altri autori (ossia tutti i nomi fin qui evocati), ma
in quanto al far trapelare un minimo di personalità dalle proprie composizioni
sembra ancora decisamente immaturo.
Questo nonostante La Fonda sia (lo dico con una certa incredulità)
il settimo album della formazione e il terzo consacrato per intero a una
dimensione acustica solo in qualche episodio rafforzata da percussioni,
fisarmonica e violino. Ora, essendo l’opera una specie di «ciclo» sulla
morte di un amico alcolizzato, sembrerebbe da un lato quasi naturale che
al ricordo di costui vengano dedicati, in musica, apologhi tascabili caratterizzati
da malinconia e rarefazione esecutiva. Ma dev’essere proprio così? Di
un’idea, di un sentimento o di una relazione, deve restare soltanto la
nostalgia? Jackson Browne (For A Dancer), Blues Traveler (Pretty
Angry) o Stevie Ray Vaughan (Life Without You), giusto per
fare qualche esempio, ci hanno insegnato che no, la memoria di un fratello
scomparso si può celebrare anche attraverso toni per niente mesti o rinunciatari.
Invece La Fonda, dopo il ritmo felpato eppure seducente dell’iniziale
As A Matter Of Fact, i cori contagiosi
di Figure It Out, il dobro countreggiante di I Was An Actor
e il clima desertico di Burn Clean, si sgonfia su tante intuizioni
(e citazioni) sparse, purtroppo incapaci di costituire il ritratto della
perdita al quale ambirebbero poiché soffocate da un eccesso di retorica
e prevedibilità.
I Furious Seasons saggiano senza interruzioni le potenzialità del proprio
linguaggio — un folk-rock autunnale e ripiegato su se stesso — senza tuttavia
riuscire a trarre, dalle sfumature, dalle suggestioni e dai timbri altrui
cui attingono, quel pizzico di incoscienza in grado di elevarli dal rango
dei bravi imitatori a quello degli autori con uno stile da tramandare.
Così, se ogni tanto si ha l’impressione di essere tornati agli Avett Brothers
precedenti il successo mainstream, ma ulteriormente raffreddati e distanziati,
più spesso si avverte la sensazione di trovarsi di fronte agli indizi
di un grande disco in pectore, destinato però a non compiersi mai del
tutto. Del resto, le rievocazioni organizzate dai singoli, e quelle messe
in musica dai Furious Seasons non fanno eccezione, acquistano senso e
credibilità se riescono a trasformarsi in memoria collettiva. Ma quella
di rendere universali i propri struggimenti è una facoltà che le canzoni
di La Fonda, purtroppo, non possiedono.