Vorrei iniziare da un’avvertenza, e
cioè dal sottolineare come la valutazione negativa attribuita
al lavoro in esame non riguardi il disco in sé, quanto l’operazione
di cui è stato per l’ennesima volta oggetto. Qualunque giudizio
si possa dare di Chore Of Enchantment (più avanti,
se vi interessa, dirò cosa ne penso io), è impossibile, infatti,
non sentirsi presi per i fondelli da questa ulteriore ristampa,
che arriva a tredici anni da quella del 2011, sempre approntata
dalla londinese Fire sotto la dicitura Embers Series: Celebrating
25 Years Of Giant Sand & Howe Gelb, ma con 9 pezzi bonus
in meno (purtroppo scomparsa anche la Music Arcade
di Neil Young fatta con la slide di Greg Leisz e le voci di
Evan Dando e Victoria Williams), singola anziché doppia, e
dove l’unica aggiunta effettiva è rappresentata non dalle
tracce supplementari (tutte appunto già apparse nell’edizione
precedente) bensì dalle note di copertina, scritte per l’occasione
da Dave Henderson di MOJO.
Essendo ancora disponibile, o rintracciabile in rete a prezzi
invero modesti, la versione 2011 dell’opera numero 17 (!)
dei Giant Sand, uscita in origine 24 e non 25 anni or sono
(nel 1999 circolò soltanto il promo per radio e giornalisti,
sia detto non per pignoleria ma per evidenziare ancora l’assoluta
pretestuosità di tutta la manovra), per quale motivo, se non
per ragioni di collezionismo terminale, bisognerebbe sobbarcarsi
un altro esborso al quale non corrisponde alcun supplemento
di contenuti? Certo, sulla compulsione all’acquisto da parte
dei collezionisti incalliti si regge buona parte di ciò che
resta del mercato discografico, anche nella sua dimensione
indie ostaggio di tanti (troppi) giochi di prestigio intesi
a riconfezionare, o configurare in modo diverso, cose già
note. Per surrogare in qualche modo il precipitoso assottigliarsi
delle vendite fisiche, è chiaro, ma di questo passo, tra costose,
inarrestabili ristampe per happy few e biglietti dei
concerti dal prezzo sempre più proibitivo, la definitiva conversione
della musica registrata da testimonianza identitaria trasversale
e democratica in passatempo per abbienti appare vicina come
non mai.
Forse se ne rende conto, provando infatti a capitalizzare
il più possibile sulla propria storia, anche Howe Gelb,
deus-ex-machina del gruppo di Tucson, Arizona, sul cui lungo,
frammentario e debordante percorso, stante anche un
eccellente ritratto dedicatogli qualche anno fa dal nostro
Gianluca Serra, non è forse il caso di soffermarsi nuovamente.
Non c’è dubbio, però, sul fatto che da qualche tempo a questa
parte le uscite della sua creatura, diciamo così, "maggiore"
(un po’ meno nella comunque alluvionale produzione solista
o parallela), mettano in mostra una certa nostalgia, una nebulosa
di sabbia riconducibile non soltanto all’elemento in cui si
muovevano i vermoni di Dune - la saga fantascientifica di
Frank Herbert da cui il variabile ensemble di Gelb ha preso
la sua ragione sociale - ma a un’opacità di pensiero fatta
di sofferenza per l’irreversibilità del tempo, ossessivamente
inseguito, nella propria coniugazione al passato, come se
fosse possibile ritrovare il profumo di epoche ormai del tutto
incrinate.
Parliamo di un sentimento contraddittorio che gli appassionati
del "nuovo rock" degli ’80, cresciuto nell’underground
ancorché consapevole delle radici più profonde della musica
americana, conoscono bene: si tratta della scena e del periodo
storico dai quali Gelb e i suoi soci provengono, e con cui
molti di noi sono cresciuti, assorbendo una riserva di canzoni,
suoni e attitudini spesso irripetibili. Perciò, è strano vedere
Gelb, che tra i protagonisti di allora era senz’altro uno
dei più fantasiosi e imprevedibili, scatenarsi in un turbine
di ristampe multiformato e addirittura avallare la rilettura,
completamente inutile, dei primi due album dei Giant Sand,
entrambi risalenti alla metà del decennio poc’anzi citato:
come se il "nuovo", all’improvviso, potesse riguardare
soltanto le sfaccettature dell’anteriorità. Non solo, perché
anche gli album di inediti, sempre più lunghi e sconclusionati
(con l’eccezione, secondo me ottima, del sottovalutato proVISIONS
del 2008), sembravano inscenare la ricerca di un altrove trasognato
e perso, di un luogo dell’anima dove racchiudere tutte le
essenze del progetto Giant Sand in un unico contenitore riassuntivo.
Con risultati a volte strepitosi, è vero: penso soprattutto
all’ultimo, bellissimo e molto classico Heartbreak
Pass (2015), anche se col senno di poi sfido chiunque
a riascoltare lavori interminabili come Is All Over The
Map (2004) o Tucson
(2012) senza avvertire un filo di stanchezza.
Ecco, in retrospettiva si può dire che
Chore Of Enchantment, da molti reputato uno
dei, se non il capolavoro dei suoi artefici, sia stata la
prima di queste riunioni di famiglia volte a intrecciare presente
e ricerca del tempo andato, nonché il singolo lavoro in grado
di rimettere i Giant Sand, fino a poco tempo prima "passatisti"
qualunque per la maggior parte della critica, sulla mappa
dei gruppi contemporanei da seguire. E se anche chi scrive
continua a sognarsi, rispetto all’anima dei Giant Sand prediletta,
il sudicio rock chitarristico di Swerve (1990) o l’acida
psichedelia grunge del perfetto Glum
(1994), è fuori discussione che in questa "corale"
dal deserto, fatta di canzoni vecchie e nuove, contrassegnata
da un’infinità di ospiti, sì, ma tutti laterali e defilati
(a un certo punto spunta persino l’organo Farfisa di Rob Arthur,
turnista di Beach Boys e Kenny Loggins), e soprattutto concepita
quale omaggio postumo all’amico Rainer Ptacek, scomparso a
46 anni per un tumore al cervello, rappresenti uno dei vertici
dell’arte combinatoria di Gelb, qui ancora coadiuvato dalla
geniale sezione ritmica di Joey Burns (basso) e John
Convertino (tamburi), di lì a poco definitivamente dimissionari
per poter meglio accudire i loro Calexico.
Portata a termine destreggiandosi fra Tucson, New York e Memphis,
durante incisioni rispettivamente presiedute dall’alchimista
John Parish, dal rocker Kevin Salem e dal maieuta downhome
Jim Dickinson, l’"incombenza di incantesimi", come
volle chiamarla il suo creatore, riuscì nell’impresa non solo
di mettere in fila tutte le anime dei Giant Sand, ma ogni
aspetto dell’infinto bricolage praticato dal loro condottiero,
senza mai dare l’impressione di trovarsi di fronte a un’opera
disomogenea o confusionaria. Anzi, dall’ouverture rumorista
del proemio alle astrazioni blues dell’ultima Shrine,
tratta proprio dal repertorio di Rainer, e passando per la
citazione del donizettiano Elisir d’Amore in coda alla
pensosa jam latina e mediterranea di No Reply, tutto
Chore Of Enchantment sembrò essere un piccolo monumento
al sovrapporsi di stili, voci e linguaggi sempre pronti, tuttavia,
a confluire con naturalezza nel country-folk spagnoleggiante
di Dusted e Punishing Sun, nelle suggestioni
malinconiche di una ballata da manuale come Dirty From
The Rain, nelle frustate elettriche della stradaiola Satellite.
A tenere assieme il tutto, la voce baritonale e abissale di
Gelb, in grado di donare espressività persino alla lettura
dell’elenco telefonico e qui indiscutibile valore aggiunto,
col suo maschio sospirare tra Leonard Cohen e Tom Waits, delle
gocce di pianoforte raccolte in Bottom Line Man, degli
artigli bluesy snudati nell’agrodolce Wolfy, del soul
da manuale metropolitano di X-Tra Wide, della chanson
calda e avvolgente di una Astonished (In Memphis) dalle
spettrali risonanze cajun. Là dove, poi, il recitativo classicheggiante
e countreggiante di Raw, la fisa tramortita della dolente
Way To End The Day e soprattutto l’afflato gospel della
magistrale Shiver rimandavano all’esperienza onirica
e melodica degli OP8 (ossia Howe, i Calexico e Lisa Germano,
nel 1997 artefici di un solo, struggente e indimenticabile
album intitolato Slush), la nuova versione di Temptation
Of Egg, con tutte le sue adorabili destrutturazioni jazz
di un canovaccio ritmico da gruppo femminile dei ’50, prefigurava
invece l’assoluta e talvolta frastornante libertà creativa
del successivo percorso solista di Gelb.
Chore Of Enchantment fu un disco spartiacque, perché
da lì in poi le affascinanti allucinazioni sonore di Gelb
persero in controllo e sostanza, mentre nella sua scaletta
metamorfosi e contorsioni sonore ancora si presentavano con
la leggerezza di una nuvola tanto sfuggente quanto incantevole.
Il che, si sarà capito, non è sufficiente perché io vi suggerisca
di acquistarlo per la seconda o terza volta, ma rende la procedura
altresì consigliata a chi, non avendola mai provata prima,
volesse farsi trasportare all’interno delle sue correnti.
Un’ultima cosa. Di recente, parlando con un amico circa la
possibilità di pubblicare un live di Dan Stuart accompagnato
dai texani Loose Diamonds, mi è stata data l’opportunità di
leggere la risposta dell’interessato a tale proposta: "Non
sono in alcun modo interessato. Ho fatto quattro album solisti,
e tre sono di troppo". A parte le connessioni tra Stuart
e Gelb (il secondo aveva esordito avvalendosi delle tastiere
di Chris Cacavas, ai tempi militante nei Green On Red del
primo), e a prescindere dalle considerazioni personali sulla
caratura artistica dell’uno o dell’altro, meno male che c’è
chi, di tanto in tanto, si ricorda di come ogni azione, compresa
quella di mettere in piedi un disco, comporti non solo metriche
digitali da soppesare, ma esborsi e conseguenze concrete.