Henry Saint Clair Fredericks - suo più articolato
e vero nome -, eccellente artista newyorkese ora ottantunenne,
ha “percorso il tempo” offrendo quasi sempre opere discografiche
di livello medio-alto. Qualsiasi genere abbia toccato: dal
blues, al folk di vario riferimento, in particolare caraibico,
al rock cantautorale e altro. Insomma, un genuino divulgatore
di una vasta gamma di colori e sfumature dell’arte musicale
e narrativa, che si è avvalso anche della collaborazione di
alcuni dei più vari e talentuosi strumentisti. Un eclettismo
che, non per nulla, lo ha visto incrociare pure il grande
Ry Cooder (quasi ad inizio carriera, coi Rising Sons, ma anche
in
tempi recenti), altro diffusore del “verbo multiculturale
ed etnico”. In ordine sparso, oltre che con lui, Mahal ha
collaborato e lasciato il suo segno con una serie di artisti
che rispondono ai nomi di Jesse Ed Davis, Etta James, Keb’
Mo, Canned Heat, Los Lobos, Ben Harper, Rolling Stones, nonché
Leon Russell.
Proprio agli ex-studios di Russell, scomparso otto anni fa
in Tennessee, Taj Mahal (chitarra, banjo, ukulele,
piano e voce) si è ritrovato con un gruppo di musicisti per
ricavarne un godibile “live”: Bobby Ingano (lap steel hawaiana
e Fender Stratocaster), Bill Rich (basso), Kester Smith (batteria),
Rob Ickes (dobro), Trey Hensley (chitarra acustica e voce).
Sono dodici i brani ricavati da quell’incontro a Tulsa, Oklahoma.
Certo, non ci possiamo aspettare l’impatto che a suo tempo
ebbero alcuni degli stessi titoli qui ripresi, ma bravura
e voglia di comunicare giocano in favore della session festaiola.
Un’occhiata al repertorio, rileva anche la presenza/ripresa
di classici del suo pluriennale e variegato percorso: tra
questi Mailbox Blues, Sitting On the Top of the
World, Mean Old World, Corrina.
La serata si apre proprio con uno dei temi più accattivanti
del suo “sguardo romantico”, rivolto a impegnativi rapporti
interpersonali: Betty
and Dupree (scritta e interpretata da Chuck
Willis nel ‘58), di cui, in Taj Mahal and the Hula Blues
(‘97), il nostro ne fece un’imperdibile, commovente versione:
qui, il cullante, cadenzato slow, inizia con un suo incitamento.
A seguire, Queen Bee, dalle coloriture caraibiche,
segnate dal tocco leggero della chitarra. Sempre su livelli
interpretativi di discreto, accattivante impatto, propone
Lovin’ In My Baby’s Eyes.
Quasi tutti i brani che seguono sono di tasso mediamente più
consistente. A partire dallo strumentale Waiting For My
Papa to Come Home, che utilizza un’ampia gamma di esotiche
tinte hawaiane e folk-blues (anche la dobro offre il suo incisivo
apporto). Una trama sonora che caratterizza pure l’abrasivo
Slow Drag
e il marcato Sitting On the Top of the World (di
Howlin’ Wolf), dalle efficaci trame chitarristiche.
Sono ancora tessiture caraibiche quelle che, nella “introduzione”
di Twilight In Hawaii, accarezzano le languide note
dello strumentale dal titolo esplicito, evocativo. Nella festa
trova posto anche Corrina (uno dei temi blues/r&b che
lo riportano a vari anni addietro, coi Rising Sons): versione
un po’ scontata, comunque gradevole. A chiudere la serata
è Mean Old World, un classico
del grande chitarrista T-Bone Walker (un’ottantina d’anni
fa…). E’ un mid-tempo blues-jazz, ben cadenzato, in cui voce,
piano e strumenti “comprimari” offrono i colori di una solida
riverniciatura.
Insomma, anche forti del rispetto di non poco conto, possiamo
applaudire la pluriennale arte comunicativa dell’eclettico
artista e le tonalità abrasivo-sentimentali della sua voce.