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Volendo cavarsela con un paradosso si potrebbe dire
che quando i Cowboy Junkies hanno scoperto le chitarre elettriche sono
nati gli Over The Rhine. Sì, magari sono nati anche Miles From
Our Home e Open, ovvero i dischi più "rock" dei mai troppo lodati Junkies,
ma soprattutto la carriera oramai decennale dei Rhine, che col gruppo
dei fratelli Timmins condivide diverse caratteristiche: la malinconia
del sound, anzitutto, l'introspezione morbida e seducente, la passione
per certa musica delle radici che si trasforma in folk elettrificato con
eleganza o in un cantautorato rockista dove sfumature e sottili palpitazioni
acquisiscono maggior peso rispetto agli assalti al calor bianco. Le differenze
più sostanziali si riscontrano nel paragone tra le voci di Margo Timmins
e Karen Bergquist (scura, arrochita eppure infinitamente dolce
la prima; sopranistica, quasi jopliniana, più femminile la seconda) e
più d'ogni altra cosa nell'inquietante prognatismo di Linford Detweiler:
questo signore dovrebbe assolutamente prenotarsi per un intervento di
liposuzione alla mascella, ma dategli in mano un qualsiasi strumento provvisto
di tasti - un piano a coda, una tastierina Buontempi, un moog, un mellotron
- e ve ne innamorerete seduta stante. Ohio conferma e amplifica
l'ispirazione della coppia Bergquist/Detweiler, squadernando 21 episodi
(ghost-track compresa, e trovatemi, se ci riuscite, un altro gruppo che
oggidì sappia reggere un doppio senza stancare mai) di fascino immediato,
con arrangiamenti più asciutti rispetto al precedente Films For Radio
e immutato appeal melodico, dove accanto al più classico trademark del
gruppo, ben esemplificato dalla panacea per piano e voce della title-track,
troviamo alcuni riusciti esperimenti che vanno dal tour de force vocale
in chiave gospel della spettacolosa Changes Come al rapping irresistibile
su base ritmica sintetica di Nobody Number One (la mia preferita),
dal rock-blues sudista di How Long Have You Been Stoned al pop
impressionista di Hometown Boy. Ora, capitemi, di dischi come Ohio
si potrebbe parlare all'infinito, poiché si tratta di uno di quei lavori
in cui ogni canzone sembra racchiudere una storia e un incanto particolari,
in cui ogni dettaglio strumentale (bravissimi, tra gli altri, Tony
Paoletta alla pedal-steel e Will Sayles ai tamburi) sembra
calibrato al millimetro, in cui tanta classe e tanto cuore vanno di pari
passo. Si potrebbe farlo, quindi, però si potrebbe pure soprassedere:
il punto è che Professional Daydreamer, Suitcase e Long
Lost Brother - le loro sospensioni, le loro eloquentissime pause,
il loro delicato struggimento, le loro ombreggiature - sono già canzoni
delle quali, a una misera settimana dal primo approccio, non riesco più
a fare a meno, e tanto basti. |