Over The Rhine - Ohio Back Porch/Virgin 2003

 

Volendo cavarsela con un paradosso si potrebbe dire che quando i Cowboy Junkies hanno scoperto le chitarre elettriche sono nati gli Over The Rhine. Sì, magari sono nati anche Miles From Our Home e Open, ovvero i dischi più "rock" dei mai troppo lodati Junkies, ma soprattutto la carriera oramai decennale dei Rhine, che col gruppo dei fratelli Timmins condivide diverse caratteristiche: la malinconia del sound, anzitutto, l'introspezione morbida e seducente, la passione per certa musica delle radici che si trasforma in folk elettrificato con eleganza o in un cantautorato rockista dove sfumature e sottili palpitazioni acquisiscono maggior peso rispetto agli assalti al calor bianco. Le differenze più sostanziali si riscontrano nel paragone tra le voci di Margo Timmins e Karen Bergquist (scura, arrochita eppure infinitamente dolce la prima; sopranistica, quasi jopliniana, più femminile la seconda) e più d'ogni altra cosa nell'inquietante prognatismo di Linford Detweiler: questo signore dovrebbe assolutamente prenotarsi per un intervento di liposuzione alla mascella, ma dategli in mano un qualsiasi strumento provvisto di tasti - un piano a coda, una tastierina Buontempi, un moog, un mellotron - e ve ne innamorerete seduta stante. Ohio conferma e amplifica l'ispirazione della coppia Bergquist/Detweiler, squadernando 21 episodi (ghost-track compresa, e trovatemi, se ci riuscite, un altro gruppo che oggidì sappia reggere un doppio senza stancare mai) di fascino immediato, con arrangiamenti più asciutti rispetto al precedente Films For Radio e immutato appeal melodico, dove accanto al più classico trademark del gruppo, ben esemplificato dalla panacea per piano e voce della title-track, troviamo alcuni riusciti esperimenti che vanno dal tour de force vocale in chiave gospel della spettacolosa Changes Come al rapping irresistibile su base ritmica sintetica di Nobody Number One (la mia preferita), dal rock-blues sudista di How Long Have You Been Stoned al pop impressionista di Hometown Boy. Ora, capitemi, di dischi come Ohio si potrebbe parlare all'infinito, poiché si tratta di uno di quei lavori in cui ogni canzone sembra racchiudere una storia e un incanto particolari, in cui ogni dettaglio strumentale (bravissimi, tra gli altri, Tony Paoletta alla pedal-steel e Will Sayles ai tamburi) sembra calibrato al millimetro, in cui tanta classe e tanto cuore vanno di pari passo. Si potrebbe farlo, quindi, però si potrebbe pure soprassedere: il punto è che Professional Daydreamer, Suitcase e Long Lost Brother - le loro sospensioni, le loro eloquentissime pause, il loro delicato struggimento, le loro ombreggiature - sono già canzoni delle quali, a una misera settimana dal primo approccio, non riesco più a fare a meno, e tanto basti.
Ci scommetto la casa che basterà anche a voi.
(Gianfranco Callieri)

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