Eric Andersen - Great American Song Series Vol.1: The Street Was Always There Appleseed/IRD 2004 1/2
 

Si potrebbe accusare l'Eric Andersen degli ultimi tempi di aver speculato un po' troppo sul proprio passato, sul fatto di aver condiviso palchi e speranze con Bob Dylan, sul fatto di essere appartenuto a quella comunità di sognatori tra happenings folk, letteratura beat e concerti jazz a suo tempo pascolante il newyorchese Greenwich Village. Si potrebbe, anche perché i recenti lavori targati Appleseed - Memory Of The Future (1998), You Can't Relive The Past ('00), Beat Avenue ('03) - su questo passato indugiano in forma quasi ossessiva, pur essendo tutti e tre diversamente belli, importanti e significativi. E in somma franchezza, dopo un primo sguardo alla copertina del nuovo Great American Song Series Vol.1: The Street Was Always There, dalla quale il nostro ci guarda appoggiandosi al lampione dell'incrocio tra le strade Bleecker e MacDougal (già immortalate da Fred Neil in un omonimo lp del '65), è impossibile reprimere un moto di fastidio. Ancora?, verrebbe voglia di chiedere. Sì, ancora, il perpetuo homecoming di Eric Andersen continua a reiterarsi anno dopo anno, indifferente alle mode e alle tendenze, e per conto mio gli perdonerò non solo simile insistenza, ma persino l'immodestia con cui, una volta presa la decisione di realizzare un'intero album composto da riletture di classici folk degli anni '60, s'è inserito nel pantheon dei grandissimi dell'epoca, tornando a interpretare la peraltro stupenda Waves Of Freedom (stava su A Country Dream del '69). Perché? E' presto detto: perché, per quanto mi sforzi, nei suoi album non riesco mai a trovare soltanto la mera calligrafia di quanto vissuto (che pure, inutile negarlo, talvolta affiora) o la sterile nostalgia del tempo che fu; impegno, dedizione, cura maniacale nei confronti dei suoni e delle sfumature di scrittura sono caratteristiche che Andersen non ha mai messo da parte, e riaffiorano puntuali anche in questa nuova circostanza. Fatta eccezione per una non memorabile A Hard Rain's A-Gonna Fall e per un inedito - la title-track - di media caratura, il programma dell'album si estrinseca con la felicità delle migliori occasioni. Spiccano la doppia rilettura di Fred Neil, ora dolcissimo (Little Bit Of Rain) ora più elettrico e bluesy (The Other Side Of This Life, con l'armonica di John Sebastian dei Lovin' Spoonful), il respiro stradaiolo conferito a David Blue (These 23 Days In September), l'elettricissimo rock'n'roll rovesciato su Buffy Sainte-Marie (Universal Soldier), le jazzate carezze di Tim Hardin (Misty Roses) e, soprattutto, una trascinante, epica White Boots Marching In A Yellow Land di Phil Ochs tra rock e reggae, potenziata da liriche e sonorità attualissime grazie all'aiuto di Wyclef Jean. Quindi, amici miei, non vi traggano in inganno i nomi di Patrick Sky o Peter LaFarge, anch'essi ivi omaggiati: questo non è un disco che parla coniugando i propri verbi al passato remoto. Ci dice anzi che, oggi come allora, le parole possono tornare a ferire, contrastandoli, quanto i proiettili.
(Gianfranco Callieri)

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