Sam Baker - Mercy Bull Creek 2004 1/2
inserito 06/10/2005

Mercy non è un titolo così diverso da Mercy Now, e le assonanze tra Sam Baker e Mary Gauthier non si fermano alle intestazioni dei loro album. Certo, l'uno è un esordiente e l'altra no, l'una è cupa e pessimista mentre l'altro sembra credere a un intima possibilità di redenzione (soprattutto spirituale), eppure entrambi raccontano storie vive e brucianti di un'umanità relitta, marginale e perdente avviluppata nelle trame di un crepuscolo country-folk che è più scheggiato di rock nel caso della Gauthier e più rootsy in quello di Baker. Dovendo soprattutto assolvere al compito di fornire alcune coordinate stilistiche attendibili, il paragone può terminare qui: proseguire oltre sarebbe ingiusto nei confronti di un album e di un autore comunque dotati di un respiro personale e di una poetica autosufficiente. Mercy, registrato a Nashville da Baker e da un gruppo di amici fidati grazie all'interessamento di Walt Wilkins e con il contributo di Jessi Colter e Kevin Welch tra gli altri, racconta in toni dimessi (ma non per questo patetici o di basso profilo) le storie nascoste di un'America rurale, profonda e profondamente ferita, quella che non trova spazio nei talk-shows o nei telegiornali se non quando un uragano provvede a devastarne le vite. Uso il termine "raccontare" non in senso casuale, dacché se c'è un'arte nella quale Sam Baker sembra primeggiare è proprio quella dello storytelling, che raggiunge punte di assoluta eccellenza nella parabola laica di Iron e nel ritratto di domestica desolazione tratteggiato in Thursday. Per dare un suono e una voce a personaggi che sentono "un vuoto dentro come una canzone country / molto più triste di quelle che passano per radio", per dare il giusto colore al cielo sterminato che sovrasta un gruppo di ragazzi intenti a giocare a baseball di sabato mattina, per evocare il dolore di una donna che scrive sulla sabbia il nome di un amante fuggito aspettando che le onde lo cancellino, Baker si affida all'austera efficacia di una ballata roots modulata, con le particolari eccezioni di Change e della title-track conclusiva e strumentale, lungo un disco intero. Canzoni lunghe e scarnificate, dettagli narrativi capaci di evocare un mondo intero di sconfitte e rimpianti, un rantolo vocale cupo e arrochito, diversi ammiccamenti (peraltro mai gratuiti o fuori luogo) alla concretezza squisita di Townes Van Zandt, di Guy Clark, di John Prine: questi gli ingredienti di un lavoro che risale al 2004 ma che fareste cosa buona e giusta ad ascoltare in qualsiasi anno.
(Gianfranco Callieri)

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