inserito 28/08/2006

Sonya Kitchell
Words Came Back To Me
[Velour/Starbucks HearMusic 2006]

1/2

Ah, la giovinezza! Quella che spinge chi vuole a esser lieto, nell'assoluta incertezza del domani, o quella che bisogna impedire a chicchessia di definire come l'età più spensierata della vita? A giudicare dai diciassette anni di Sonya Kitchell, a giudicare da come la sua età, i suoi amori e le sue aspettative si estrinsecano in un esordio dello spessore di Words Came Back To Me, verrebbe da scegliere istintivamente la prima: di sicuro è quella che ha scelto lei, confezionando un disco che frulla con estro splendido tutte le passioni di un'adolescente che si affaccia alla musica. Solo un'adolescente, con tutta la sfrontatezza e l'ingenuità che la sua stagione offre in dote, potrebbe aprire le danze di un debutto rielaborando in sfacciata chiave jazzy il Bob Dylan di Girl From The North Country, ma è proprio quello che accade nell'iniziale Let Me Go, dove accanto alla voce straordinariamente matura - piena, rotonda, sensuale - dell'autrice si fa strada l'organo classicissimo di Kiro Sprague. Se pensate che le giovani promesse abbiano rotto le scatole sappiate che non posso darvi torto, eppure sono convinto che Sonya Kitchell valga il prezzo del biglietto e che i suoi prossimi dischi manterranno, appunto, quanto promesso oggi e solo minimamente opacizzato da un entusiasmo cui manca magari un pizzico di professionalità in più. Questo non significa che il disco in questione soffra di scarse qualità tecniche o latiti sul versante dell'ispirazione, bensì che lanciarsi in sperticati omaggi a Carole King, Anita Baker, Van Morrison, Burt Bacharach e Aretha Franklin, come accade qui, è impresa che necessita non soltanto di coraggio e trasporto, ma anche di quel tocco di malizia accademica di cui la Kitchell, comprensibilmente, ancora non dispone. Capita dunque che Words, inequivocabile riverenza nei confronti della Joni Mitchell di Mingus ed Hejira, soffra un po' il confronto con la sua stessa fonte d'ispirazione, oppure che la Cold Day prescelta quale primo singolo dia un'interpretazione della materia folk-rock eccessivamente contratta e derivativa. Piccolezze, ad ogni modo, di fronte alle numerose frecce all'arco di un disco imbevuto di jazz, pop e rock in egual misura, compresa una punta di funky nella deliziosa Train. La bluesata Can't Get You Off Of My Mind non teme raffronti di sorta, il folksingin' gracile eppure penetrante di Tinted Glass e Too Beautiful incrinano il cuore, Simple Melody evoca sterminati paesaggi invernali pur scaldando l'animo. Bellissimo, poi, è il congedo quietamente acustico di una Jerry (dedicata al fratellino dell'artista) il cui trionfo di storytelling, seguito a ruota da un'altrettanto scarna e deliziosa ghost-track sullo stesso argomento, si candida sin da ora alla playlist delle migliori canzoni dell'anno. Era dai tempi di Norah Jones (che rimane in ogni caso su di un gradino superiore) che non ascoltavo un debutto così convincente e può darsi che passi parecchio tempo prima di ascoltarne un altro agli stessi livelli.
(Gianfranco Callieri)

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