inserito 27/06/2007

Ben Weaver
Paper Sky
[Glitterhouse  2007]

1/2

La sola regola che si è dato in materia di songwriting, almeno stando alle dichirazioni del diretto interessato, è quella di mettere per iscritto qualsiasi intuizione gli passi per la testa. Nascono così le idee che poi danno forma e sostanza alle canzoni di Ben Weaver: lo immagini esattamente al centro del suo stanzino, in uno scantinato alla periferia di Minneapolis dove vive da parecchio tempo ormai, sommerso da fogli scarabocchiati, chitarre e ammennicoli vari, compresi sintetizzatori, organetti e ogni altra diavoleria che possa "arricchire" le sue ballate sghembe. Folksinger già apprezzato da queste parti, girovago discograficamente, ma sempre ben voluto sul mercato europeo essendo passato dalla francese Fargo alla storica Glitterhouse (come dire la crema del songwriting d'autore nel vecchio continente), Weaver si conferma un cane sciolto, oggi più che mai avviluppato intorno alle sue scombinate storie di campagna e città, come lui stesso le definisce. Un disco, il quinto in carriera, che unisce secondo una descrizione tutta sui generis urban e rural, ovvero sia le radici folkie del personaggio e gli arrangiamenti elettronici del produttore Brain Deck (non a caso al lavoro anche con i Califone). Nulla che stravolga la natura scarna di queste ballate da groppo in gola, una mestizia che a lungo andare sembra sbaragliare persino i concorrenti più agguerriti come Will Oldham, Jason Molina o Iron & Wine. L'interpretazione del mondo che lo circonda non sembra delle più lineari per Weaver, e il fatto che nell'ultimo periodo abbia ascoltato più Bill Evans, Glenn Gould e Fennesz di qualsiasi disco di Townes Van Zandt o Leonard Cohen, i primi accostamenti che un tempo furono fatti alla sua musica, esplicita i contenuti contradditori di questo Paper Sky. L'atavica malinconia del nostro si accascia sulle sonorità glaciali di Black on Black, Frankie e Surrealism and blues, sulle dissonanze di Geisha e Whatever You Want to Haunt You, relegando in una zona appartata i ricordi del passato, quella scrittura più spettrale e roots che torna soltanto nel banjo di Like a Vine After the Sun e Rain Leaves Smoke. Un ruolo assai più evidente è assunto invece dal pianoforte, da qualche abbellimento di synth e archi, i quali tuttavia non riescono ad eliminare la sensazione di stanchezza e abbandono che accompagna l'intero disco. Si incomincia con le note In November e si approda alla cantilena di Wings as Knives e The Unelected cercando una via di fuga, una melodia che faccia tirare un sospiro. E al contrario non arriverà mai, lasciandoci in balia di Ben Weaver e del suo canto depresso: se tutte le idee che gli frullano in testa devono mostrare per forza questo sapore amaro, è il caso allora che cominci a tralasciarne qualcuna. Il songwriting va curato con parsimonia.
(Fabio Cerbone)

www.benweaver.net
www.glitterhouse.com


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