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Stace
England & The Salt Kings
Salt Sex Slaves
[Crane/Bag
Recordings 2007]
Non manca di inventiva e certamente di profondità storica il songwriting
di Stace England, un personaggio incuriosito dall'ambiente che
lo circoda, dai fantasmi che ritornano dal passato, in definitiva alla
ricerca di un'America che tende sempre con eccessiva fretta a dimentaicare
se stessa. Lo avevamo scoperto un paio di stagioni addietro con Greetings
from Cairo, Illinois, titolo ironico che giocava con il conterraneo
e più chiacchierato Sufjan Stevens, ma dal quale Stace England si distaccava
totalmente per ispirazioni musicali e resa sonora. Narrava in forma di
concept le vicende di una small town di provincia, dai tempi della guerra
civile ai giorni nostri, e del suo lento declino. Un destino comune a
molte cittadine perse nel nulla dell'american way of life, con
piccoli sogni infranti e molta disoccupazione alle porte.
Salt Sex Slaves riparte da quelle intuizioni, rendendo ancora
una volta lodevole il percorso di England, quasi un documentarista che
sceglie i suoi obiettivi per raccontare storie con una valenza universale.
In questo caso si tratta di John Crenshaw, soprannominato The Salt King,
che deportò 800 schiavi dal Kentucky per alimentare le estrazioni dalle
sue miniere di sale nell'Illinois e che fondò la cosiddetta Old Slavery
House, dormitorio con apposite celle per i lavoratori di colore, nella
città di Equality, un nome talmente stridente da sconfinare nella pura
beffa. La schiavitù era difatti formalmente bandita dallo stato dell'Illinois,
ma ciò non fu di ostacolo allo sfruttamento di centinaia di persone nel
nome di un nuovo feudalesimo. Salt Sex Slaves parla esattamente di questo,
con scrupolosa preparazione, e lo fa scegliendo il linguaggio di un roots
rock semplice e chitarristico, dagli accenti southern: una via diretta,
che non possiede la stessa forza delle liriche, ma sa fornire un respiro
sincero alla musica di Stace England e dei suoi Salt Kings (Charlie
Tabing alle chitarre e lap steel, Ron Johnson al basso, Dabe
Splat alla batteria).
Questo probabilmente il maggiore cruccio di un disco assai meno incisivo
rispetto ai suoi contenuti storici, che non sa andare oltre il rock'n'roll
affilato della title track, del southern boogie di Inequality
In Equality, Liberty and the Baptists
e Ode to Uncle Bob, delle spinte blue
collar di Rationalize, tra slide guitar
di grana grossa e riff a catena in venerazione degli Stones. England va
a zonzo da una decina di anni fra produzioni indipendenti, sia da solista
che in compagnia, ma la bussola resta ancorata a certo linguaggio alternative
country (i tempi medi di Muscle and Bone e
Do It Right, la mansueta country ballad
Shawneetown, fra le cose migliori),
in cui inserti di pedal steel, violino, banjo caratterizzano un sound
agreste e stemperano le bizze elettriche della band. Non è un caso dunque
che l'amico e mentore Jason Ringenberg (Jason & the Scorchers)
benedica l'operazione prestando la sua voce per una vecchia folk song
abolizionista, Freedom's Star.
(Fabio Cerbone)
www.staceengland.com
www.myspace.com/staceengland
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