inserito 11/02/2008

Stace England & The Salt Kings
Salt Sex Slaves
[
Crane/Bag Recordings 
2007]



Non manca di inventiva e certamente di profondità storica il songwriting di Stace England, un personaggio incuriosito dall'ambiente che lo circoda, dai fantasmi che ritornano dal passato, in definitiva alla ricerca di un'America che tende sempre con eccessiva fretta a dimentaicare se stessa. Lo avevamo scoperto un paio di stagioni addietro con Greetings from Cairo, Illinois, titolo ironico che giocava con il conterraneo e più chiacchierato Sufjan Stevens, ma dal quale Stace England si distaccava totalmente per ispirazioni musicali e resa sonora. Narrava in forma di concept le vicende di una small town di provincia, dai tempi della guerra civile ai giorni nostri, e del suo lento declino. Un destino comune a molte cittadine perse nel nulla dell'american way of life, con piccoli sogni infranti e molta disoccupazione alle porte.

Salt Sex Slaves
riparte da quelle intuizioni, rendendo ancora una volta lodevole il percorso di England, quasi un documentarista che sceglie i suoi obiettivi per raccontare storie con una valenza universale. In questo caso si tratta di John Crenshaw, soprannominato The Salt King, che deportò 800 schiavi dal Kentucky per alimentare le estrazioni dalle sue miniere di sale nell'Illinois e che fondò la cosiddetta Old Slavery House, dormitorio con apposite celle per i lavoratori di colore, nella città di Equality, un nome talmente stridente da sconfinare nella pura beffa. La schiavitù era difatti formalmente bandita dallo stato dell'Illinois, ma ciò non fu di ostacolo allo sfruttamento di centinaia di persone nel nome di un nuovo feudalesimo. Salt Sex Slaves parla esattamente di questo, con scrupolosa preparazione, e lo fa scegliendo il linguaggio di un roots rock semplice e chitarristico, dagli accenti southern: una via diretta, che non possiede la stessa forza delle liriche, ma sa fornire un respiro sincero alla musica di Stace England e dei suoi Salt Kings (Charlie Tabing alle chitarre e lap steel, Ron Johnson al basso, Dabe Splat alla batteria).

Questo probabilmente il maggiore cruccio di un disco assai meno incisivo rispetto ai suoi contenuti storici, che non sa andare oltre il rock'n'roll affilato della title track, del southern boogie di Inequality In Equality, Liberty and the Baptists e Ode to Uncle Bob, delle spinte blue collar di Rationalize, tra slide guitar di grana grossa e riff a catena in venerazione degli Stones. England va a zonzo da una decina di anni fra produzioni indipendenti, sia da solista che in compagnia, ma la bussola resta ancorata a certo linguaggio alternative country (i tempi medi di Muscle and Bone e Do It Right, la mansueta country ballad Shawneetown, fra le cose migliori), in cui inserti di pedal steel, violino, banjo caratterizzano un sound agreste e stemperano le bizze elettriche della band. Non è un caso dunque che l'amico e mentore Jason Ringenberg (Jason & the Scorchers) benedica l'operazione prestando la sua voce per una vecchia folk song abolizionista, Freedom's Star.
(Fabio Cerbone)

www.staceengland.com
www.myspace.com/staceengland


<Credits>