inserito 29/05/2009

Ryan Bingham & The Dead Horses
Roadhouse Sun
[
Lost Highway/ Universal  
2009]



"The road it gives and the road it takes away" avrebbe detto Tom Russell: per Ryan Bingham la strada è una necessità di vita, movimento come esperienza, continua messa in discussione, ed oggi, aperta la breccia con il precedete Mescalito, la strada è anche uno sprone per descrivere, ingiustizia dopo ingiustizia, la picchiata libera di una nazione. Ryan Bingham diventa politico? Non scherziamo, lui resta sempre quel ragazzo cresciuto nella polvere del South West fra rodei, honky tonks e sabati notte spesi a cavallo della sua rock'n'roll band. La coscienza del songwriter ha però acquisito una visione: nessuna resa ai clichè del circuito musicale texano, persino una netta distanza dal rinascimento Americana. Roadhouse Sun ha altri obiettivi, mette la faccia dentro il fango americano e se ne esce con un disco che trasuda elettricità, sporcizia e baratta un briciolo della poesia da troubadour (la ritrovate comunque intatta in Snake Eyes e nella confessionale Rollin' Highway Blues) che ci aveva così ammaliato in Mescalito.

Non è una rivoluzione copernicana, perché la voce di Bingham gratta ancora la vernice della tradizione, eppure la produzione di Marc Ford (ancora lui al timone) e le dinamiche dei fedelissimi Dead Horses spingono verso il limite del precipizio una serie di ballate più sfacciate. L'effetto sorpresa si sarà anche dissolto, ma nulla è così scontato in Roadhouse Sun: nella sua sfrontatezza, nel dilatare un sound ormai riconoscibilissimo (Bluebird è in tal senso un capolavoro fatto di saliscendi), si tratta di un disco che traghetta Ryan Bingham verso il definitivo affrancamento. Ora rimangono soltanto dodici sentieri che marcano il territorio americano con un misto di rabbia, disincanto e lirismo in cui trovano posto tanto le Country Roads (palpitante ballata squarciata dall'armonica del protagonista) e i ricordi familiari (la marcetta roots che incombe fra chitarre e mandolini in Tell My Mother I Miss Her) quanto le immagini nitide, sferzanti di un paese che implode dentro i suoi stessi sogni. E' da questa parte del guado che si innalza il rantolo rock di Ryan Bingham, lo scoppio improvviso che lacera Day Is Done, atmosfera swamp surriscaldata in cui lo zampino sudista di Marc Ford lascia un segno, ma assai di più l'evocazione in Dylan's Hard Rain, country rock che getta lo sguardo sulla mappa degli States feriti e costretti a rivivere le depressioni del passato.

Le vere frustate però si chiamano Change Is - roboante, psichedelica, piena di curve e insidie - ed Endless Ways, un pugno dritto in faccia (you want more money in your hand/ you want more blood from a foreign land) al passo di chitarre brulicanti e valvole bruciate: non è una parte inedita dell'artista, che già all'esordio aveva palesato il suo generoso cuore elettrico, ma in Roadhouse Sun il nostro sembra prendersi più libertà e più rischi, magari risultando imperfetto (Hey Hey pare un po' gettata al vento e confusa) ma alla resa dei conti sincero. Spiazzante al punto che nel finale i Dead Horses al completo sentono l'esigenza di tornare con i piedi per terra, fra il ballonzolare da saloon di Roadhouse Blues, piano boogie e inconfondibile twangin', e l'incedere rappacificante di Wishing Well. Cercatelo ancora una volta sulla strada: Ryan Bingham vi aspetta sul suo van alla prossima fermata.
(Fabio Cerbone)

www.binghammusic.com
www.myspace.com/ryanbingham


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