inserito 11/05/2009

Bill Callahan
Sometimes I Wish We Were an Eagle
[Drag City 
2009
]



Copertina bucolica, incantevole e demodè come si addice al personaggio, riferimenti naturali sia nel titolo, Sometimes I Wish We Were An Eagle, sia nelle canzoni, le quali sembrano anelare ad una esigenza di libertà e sogno (gli uccelli come desiderio di fuga e riscatto dai dolori personali): la pienezza formale e le digressioni country rock del precedente Woke on a Whaleheart, il disco più cantautorale e "classico" di Bill Callahan - e per questo poco apprezzato dalla sponda "indie" - lasciano il passo ad un ritorno verso quella controversa, chiusa, enigmatica malinconia che ha segnato il suo stile nella precedente creatura Smog. In verità Sometimes I Wish We Were An Eagle è un disco di mezzo, una volta si sarebbe probabilmente definito di transizione: in superficie le ferite sono quelle procurate dalle pene dell'amore e dalla chiusura di una storia importante con un'altra apprezzata artista (Joanna Newsome), la sublimazione invece è rappresentata da queste ballate sontuose che riscoprono il sound nostalgico e ombroso di alcune uscite dei citati Smog, pur rilette alla luce di un autore che nel tempo ha abbandonato le tentazioni indie rock per abbracciare la maturità del suo canto.

Inevitabile tornare ai paragoni con l'ingombrante Leonard Cohen, eppure gli arrangiamenti di Brian Beattie (chitarre e piano, ma soprattutto curatore di archi e fiati) sono li a dimostrare questa nobile ascendenza, mentre Bill Callahan può riversare tutto l'impenetrabile viluppo delle sue liriche con una interpretazione che si pone fra il talkin' e il fare incantevole di un autentico crooner. Per questo e altri motivi il disco apre un varco e divide l'accoglienza della critica: qui, dove il predecessore Woke on a Whaleheart era stato ampiamente lodato, il nuovo corso ci appare a volte un po' studiato, per lo meno non così coraggioso come in passato. È un disco come sempre di chiaroscuri, di ballate dall'eleganza formale impeccabile, ma con il serio rischio di apparrire a volte stucchevoli (Jim Cain e la sua speculare chusura, l'interminabile Faith/Void), di ricerche melodiche esotiche (The Wind and the Dove), accostate tuttavia ad un talento indiscutibile che rende Bill Callahan un songwriter che ha fatto scuola e nello stesso tempo si è reso unico nel panorama moderno della canzone d'autore folk.

Il tratto distintivo del disco è quel porre la voce baritonale sempre in primo piano, di avvolgerla spesso in strati di archi che contrastano chitarre pizzicate e pianoforti (Jonathan Meiburg) in seconda battuta. Anche la ritmica accesa contrasta con le tonalità serene dell'interprete e degli arrangiamenti (My Friend, una straniante All Thoughts Are Prey to Some Beast che potrebbe piacere a David Bowie), creando interessanti soluzioni nella misteriosa Eid Ma Clack Shaw, oppure descrivendo un vero e proprio spazio pop in Too Many Birds, l'episodio più "accattivante" della raccolta. La quale non sarà forse il vertice della poetica di Callahan, ma un momento di passaggio che lascia sul campo ampi spazi di manovra e meno incognite del previsto.
(Fabio Cerbone)

www.myspace.com/smoggertone
www.dragcity.com


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