Deadstring
Brothers
Sao Paulo
[Bloodshot
Records 2009]
Con un'anima divisa a metà fra Detroit, luogo di nascita nel 2003, e Londra,
città da cui proviene l'intera line up della band, fatta eccezione per
il leader Kurt Marschke, i Deadstring Brothers sono un rock'n'roll
circus (e mai il nome fu più appropriato viste certe ascendenze sonore)
pronto ad affrontare l'eccitazione della strada: un lungo tour inglese
questo autunno aprirà infatti il varco all'uscita, per il momento prevista
per il solo mercato europeo, di Sao Paulo, disco su Bloodshot
che soltanto con il nuovo anno apparirà sulle scene americane, trascinando
con sé nuove date. Kurt Marschke pare avere pianificato ogni cosa nel
minimo dettaglio, e in attesa che il gruppo prenda confidenza con il repertorio
si è inventato un diversivo: si, perché al quarto giro di boa l'impressione
è che i dischi dei Deadstring Brothers siano soltanto un'altra scusa per
mandare avanti il circo di cui sopra. Nel caso specifico si tratta di
impercettibili svolte dentro un sentiero che fin dagli esordi ha sempre
avuto come punto di riferimento l'opera degli Stones più straccioni degli
anni 70 (Exile come bibbia sul comodino, ma anche i Faces come stretti
parenti e magari Gram Parsons quale musa ideale nei momenti di romanticismo
Americana).
Sao Paulo, pur con tutte gli accorgimenti del caso, una evidente rozzezza
di fondo che esalta il suono in presa diretta e la dimensione live della
band, è semplicemente un discorso ripreso là dove Straving Winter Report
e Silver Mountain si erano interrotti. L'originalità resta al grado zero,
si sarà capito, anche se qualcuno si farà certamente trascinare dalla
grondande e accalorata fisicità delle chitarre in Smile,
Houston e The
River Song; così come da una voce, quella di Marschke, che
fa il verso a Mick Jagger rendendosi a seconda delle esigenze bluesy e
dissoluta (la title track introdotta da una slide in odore di profondo
e misterioso Delta), oppure ubriaca e infervorata di aromi campagnoli
(Adalee, Yesterday's
Style), in tutta la sua imprecisione. E la band in tutto questo
suona maledettamente indolente, con piano e organo di Pat Kenneally a
fornire le coordinate di un rock settantesco (la drammatica The
Same Old Rule) che per certi brutti ceffi non vorrebbe mai
tramontare, mentre pedal e lap steel di Spencer Cullum (il fratello Jeff
si occupa del basso) sono l'indispensabile contrappunto roots di una formazione
che per qualcuno poteva anche rientrare nella solita accozzaglia alternative
country.
In realtà Kurt Marschke si è fatto le ossa a Detroit, città che
di orizzonti country non sa che farsene, e dopo avere diviso il palco
con Drive By truckers, My Morning Jacket e Shooter Jennings deve avere
optato saggiamente per il volto "outlaw" del movimento. In Sao Paulo qualche
cedimento di cuore gli è concesso (il duetto in Always
a Friend of Mine) come spetta a tutti i romantici fuorilegge,
ma alla fine la sua percezione del rock'n'roll resta sempre la stessa:
un guaio più che un vantaggio, ma si difendono con onore. (Fabio Cerbone)