inserito 15/04/2009

The Drones
Havilah
[Atp/ Good Fellas  
2009
]



Con una predilezione per i luoghi oscuri del rock'n'roll, ma soprattutto sospinti da un legame fortissimo con la natura e ciò che in America chiamerebbero wilderness, il quartetto australiano The Drones continua a concepire i propri dischi dentro spazi e territori dimenticati. Prima è stata la volta di un mulino abbandonato (il precedente Gala Mill del 2006), oggi tocca ad una casupola di argilla dalle parti di Mt Buffalo, nel più totale isolamento dello stato di Victoria. Quasi una necessità per Gareth Liddiard nel dare forma alle sue livide ballate elettriche, che montano con una crescente epicità e allo stesso tempo graffiano la terra con le unghie, costruendo un suono bluesy urticante, pieno di sporcizia rock che deriva direttamente dagli Stones più "malati" dei settanta e dai loro discepoli più sordidi. Innegabile infatti che la passione bruciante, persino i fastidiosi stridori di Havilah, quarto lavoro della band e primo a sancire l'entrata del chitarrista Dan Luscombe, siano figli dei Birthday Party, dei Beasts of Bourbon, degli Scientists, di una lunga tradizione insomma che ha fatto dell'australia una sorta di avamposto per la destrutturazione delle radici rock blues, rivoltandole seccondo una sensibilità punk e arrembante.

Havilah in tal senso non si discosta certamente da quanto mostrato nel recente passato, seppure suoni più vigoroso, alticcio e meno onirico del suo predecessore, l'apprezzato ma disturbante Gala Mill. Questa volta i Drones e il produttore Burke Reid sembrano essersi abbandonati ad un rock'n'roll più nervoso e variegato, per quanto possa risultare varia la formula granitica della band. Nondimeno gli scatti di Nail It Down e la furia incotrollabile di The Monotaur aprono il disco con una "arroganza" ed una sicurezza innegabili: la seconda in particolar modo si svela quali tour de force per l'ansia vocale, ruvida e sgraziata di Liddiard, mefistofelico come mai nel suo berciare alla luna. Il misto di malinconia e violenza della sua musica, la poesia un po' aguzza dei suoi testi non si nega tuttavia a quelle lunghe cavalcate che sono il marchio di fabbrica dei Drones: I Am the Supercargo è la quintessenza di questa filosofia, che pare liberare il corpo e l'anima di una musica vissuta come catarsi, esperienza sospesa fra Crazy Horse, psichedelia e noise che forse va sperimentata dal vivo, una sensazione ribadita dagli otto minuto e mezzo di Luck in Odd Numbers, attesa paziente verso l'esplosione finale.

The Drones sono però oggi disposti a scorinare ballate più rootsy, con una matrice folk e country blues che si evidenzia nella cantilena di The Drifting Housewive, nell'eterea e rallentata Penumbra, ma soprattutto nel finale di You're Acting Like It's the End of The World, un ebbro abbandono fra le strade polverose della loro terra australiana. Nel bilanciare queste anime hanno pubblicato probabilmente il loro disco più maturo, seppure non risulti il più istintivo.
(Fabio Cerbone)

www.thedrones.com.au
www.myspace.com/thedronesthedrones


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