inserito 02/09/2009

Joe Henry
Blood from Stars
[
Anti  
2009]



Fra gli opposti capi di Prelude: Light No Lamp When The Sun Comes Down (un semplice, breve abbozzo pianistico ad opera di Jason Moran) e Coda: Light No Lamp When The Sun Comes Down (sviluppo vero e proprio della canzone) è custodito il "nuovo corso" di Joe Henry, in verità un graduale ritorno all'essenza del suo songwriting, già messa in atto con il precedente e acclamato Civilians. Là dove il fulcro ruotava intorno ad una massiccia ripresa di brillanti sonorità folk rock, ad un cantautorato acustico di classe che facesse comunque tesoro delle precedenti conquiste, oggi si rivolge invece ad una essenzialità blues & jazzy che trasuda dalle strutture stesse dei brani, da atmosfere serpeggianti che mettono insieme i misteri della New Orleans di Dr. John, il sabato notte e la vita bohemienne di Tom Waits, i chiaroscuri della Los Angeles narrata di Raymond Chandler. Si tratta comunque di una ulteriore scarnificazione del linguaggio che tanto aveva contribuito ad arricchire e allargare in passato, con opere quali Scar e Tiny Voices: la poetica di Joe Henry si trova ancora tutta li, scodinzolando attorno allo stesso romanticismo da late night hour, fra liriche dal forte sapore letterario, anche se alcune recenti produzioni e la stretta frequentazione con autori dall'ispirazione tradizionale (da Rodney Crowell a Mary Gauthier a Loudon Wainwright) pare lo abbiano convinto a chiudersi a riccio.

Si era già fatto notare come alcune soluzioni sonore fossero arrivate probabilmente ad un punto di non ritorno, l'idea di Henry allora deve essere stata quella di azzerare ogni velleità, convinto di possedere canzoni in grado di sorreggerlo. Blood from Stars è in tal senso un banco di prova importante, che sembra lasciarlo in parte a bocca asciutta, ancora capace di svelarsi quale grande estesta, raffinato cesellatore di suoni e umori, ma un po' a corto di sostanza. Concepito negli studi casalinghi di South Pasadena con i fidati Jay Bellerose, David Piltch e Patrick Warren, ampliato ai contributi di Marc Ribot (sorprendente nella sua presenza alla tromba, inconfondibile peraltro alla chitarra) e soprattutto del figlio Levon Henry (sax sinuoso - sentitelo in Stars - e assai promettente per un ragazzo di soi diciasette anni), il disco si espone in più di un'occasione alla pura accademia, nonostante la forma blues & gospel di The Man I Keep Hid, Bellwether, della scura All Blues Hail Mary o ancora di Death To The Storm costituisca un tributo onorevole al genere.

Henry inoltre ha imparato di episodio in episodio ad accarezzare con la sua voce, sempre più quieta e accurata: non stupisce dunque vederlo giostrare con padronanza le sfumature waitsiane (riferimento a volte assai ingombrante) di This Is My Favorite Cage e Progress of Love (Dark Ground), oppure ritagliarsi un ruolo nelle trame ritmiche di Channel e Suit On A Frame, tra i momenti più originali e meno dipendenti dallo schema blues. L'espressività del canto (e la bellezza indiscutibile dei suoni) non basta però a mascherare un evidente impasse compositivo, o quanto meno l'impressione che Joe Henry per la prima volta non abbia voluto prendersi qualche doveroso rischio.
(Fabio Cerbone)

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