Hoots
& Hellmouth
The Holy Open Secret
[Mad
Dragon 2009]
L'impressione è chiara: non ci libereremo tanto in fretta di questa ondata
folk che sta letteramente travolgendo le nuove leve artistiche sorte in
questi ultimi due anni. Hoots and Hellmouth sono soltanto la più
recente invenzione in fatto di ritorno a stagioni lontane di revival folk,
radici e old time music, naturalmente declinati secondo un eclettismo
e variazioni sul tema che appartengono interamente alla nostra epoca.
Lungo il sentiero percorso negli ultimi mesi da Mumford&Sons, Woody Pines,
e prima ancora da Avett Brothers, Langhorne Slim e Old Crown Medicine
Show, la campana di vetro sotto cui si rifugiano Sean Hoots e Andrew
Gray (in arte Hellmouth, e abbiamo risolto il mistero del nome) è
fatta di trame acustiche e sapienti ripescaggi del passato che fu, tra
le foto in bianco e nero di una scapestrata jug band agli angoli degli
incroci di Memphis, un dixieland sentito per le strade di New Orleans,
una antica melodia recuperata dai monti Appalachi e via di questo passo.
The Holy Open Secret è già il loro secondo vagito per la Mad Dragon,
dopo un omonimo e promettente esordio che li infilava dritti nel femonemo
folk di ritorno. Non sono dunque dei ritardatari al banchetto, anche se
l'effetto tende a scemare dopo le recenti scoperte: comincia ad esserci
un certo affollamento e pur in tutta la loro esuberanza Root
of the Industry e You and All of Us,
partenza agile e scattante sulle note di un old time colorito, restano
esempi già assimilati di una riverniciatura del genere. Il disco è breve
come si addice alla tradizione, leggero al punto giusto, meditabondo all'occorrenza,
il mondo musicale di Hoots and Hellmouth, duo allargato alla collaborazione
di vecchi e nuovi amici (al mandolino il bravo Rob Berliner) conosciuti
nel tempo sulla scena di Philadelphia, si fa apprezzare per la sua varietà
di linguaggio e quell'idea che si possa passare dal registro più malinconico
di Ne'er Do Well alle convulsioni
ritmiche di What Good Are Plowshares If We Use
Them Like Swords?, episodio fra i più singolari con le sue
caricature e quell'organetto sixties.
Nel mezzo un trombone e la camminata di un'orchestrina da Big Easy in
Dishpan Hands, ancora trame sudiste
e un sapore gospel che affiora in Known for Possesion,
tanto per rimarcare il vasto territorio tradizionale da cui la band prova
ad attingere la sua ispirazione. Nulla di sbagliato in questa esuberanza
e un divertimento garantito: la gavetta nei circuiti locali della costa
est, le apparizioni al Philadelphia Folk Festival, un seguito di culto
sono tutti segnali della crescita costante in pubblico e siamo quasi pronti
a scommettere che proprio nella dimensione live Hoots and Hellmouth possano
svelare un'irruenza qui soltanto abbozzata. Resta al momento la sensazione
di una band potenzialmente meno dischiusa ad una qualche grande promessa,
come nel caso di altre simili realtà citate in precedenza. (Fabio Cerbone)