The
Mighty Stef
100 Midnights
[The
Firstborn is Dead 2009]
Era ora che la terra d'Irlanda tornasse a sfornare qualche personaggio
spiritato, nel segno del rock'n'roll più sordido: un poco Shane McGowan
(che peraltro benedice l'operazione partecipando al duetto in Waitin'
Around to Die) in versione garage rock e un poco Nick Cave
(si veda anche il nome dell'etichetta personale...) vestito da cantastorie
e marinaio, Stefan Murphy in arte The Mighty Stef mette insieme
l'arte affabulatoria della sua patria d'origine e le ballate picaresche
con il rantolo blues di Tom Waits e la sfrontatezza rock del fuorilegge
che deve avere imparato nelle sue frequentazioni americane. 100
Midnights arriva con il solito proverbiale ritardo di distribuzione,
essendo stato pubblicato la scorsa primavera per il mercato nazionale
e inglese: lo recuperiamo con l'entusiasmo che meritano i veri outsider
di questa stoffa, interpreti che giocano, anche con malizia, con i propri
peccati, la vita un po' dissoluta e l'ombra della morte sempre alle spalle.
Fanno questo effetto le spacconate di The Mighty Stef, band a tutti gli
effetti che dietro la voce cavernosa di Murphy (un Lanegan leggermente
su di giri, per intenderci) dispiega le chitarre di Bren Dempsey e
l'organo di Brian Fitzpatrick, tessere essenziali per il sound di 100
Midnights.
Un disco con un'anima vestita di nero che si divide esattamente a metà:
da una parte il sudore del rock'n'roll più solenne (l'inno di Downtown)
e trascinante (Safe At Home, ospite
la voce di Cait O Riordai dai Pogues), quelle guasconate da autentico
bohemienne che solo Willy De Ville sapeva trasformare in arte (sentitevi
Hound Dogs of Love) e in generale
una inclinazione verso l'eredità dei sixties (il soul malato di Come
Over to the Darkside e Russian Roulette,
quest'ultima dedicata alla tragica morte del pianista r&b Johnny Ace),
dall'altra la maschera della tradizione locale, fra canti e danze ubriache
intonate dal fondo del bar (lo shanty della stessa 100
Midnights e la gemella I Swear I Have
no Feelings for that Girl, il finale con A
Pretend Sailors Goodbye).
E pensare che Stefan Murphy era partito con il punk spensierato dei Subtonics,
una band che aveva smosso un certo chiacchiericcio in patria, salvo crollare
sotto la stessa splendida confusione del suo leader. Molti concerti, scarse
risultati discografici, tanto che Murphy si era messo a girovagare per
il mondo. L'esordio solista già nel 2005 con un primo singolo, poi i ripetuti
soggiorni negli States (anche al South by Southwest di spalla ai Flogging
Molly) e un debutto registrato addirittura in Canada l'anno successivo
(The Sin of Sainte Catherine). Ad un certo punto l'America è diventata
naturalmente una seconda casa, e come non giusticare la sua scelta: Sunshine
Serenade strimpella una ballata country da orizzonti infiniti,
Kings of New York è un calice alzato
alle fantasie romantiche di un peccatore perso nella Big Apple, mentre
Golden Gloves si prende una sbornia
per il garage blues più primitivo, giù nei locali malfamati di Chicago.
Bella sorpresa. (Fabio Cerbone)