Jeb
Loy Nichols
Strange Faith and Practice
[Tru Thoughts 2009]
"Mi sveglio al mattino e cerco di schiarirmi la testa, vedo quindici merli
sui cavi del telefono, se si leveranno in volo verso ovest sarà quella
la mia strada, se gli uccelli andranno verso est prenderò la strada per
Johnstown" è così che ce la canta Jeb Loy Nichols in Sometime
Somewhere Somebody - brano d'apertura diStrange Faith
and Practice - e questa frase calza a pennello come descrizione
delle scelte musicali di questo artista originario del Wyoming, che da
quasi vent'anni ormai seguendo il volo degli uccelli si muove con naturalezza
lungo le strade della musica americana - tutta, anche jazz - e poi verso
la Giamaica e il reggae: miscugli fantasiosi che però in questo tempo
- il tempo dei generi di nicchia - hanno riscosso poco successo presso
un pubblico come quello odierno che non ama essere spiazzato. Spiazzante
è - ad esempio - sfornare due dischi l'anno, infatti questa uscita settembrina
fa seguito a Parish Bar che aveva visto la luce lo scorso gennaio,
ma fatta eccezione per il crooning ricco di twang di Nichols i due album
hanno poco in comune e se il primo può essere consigliato a chi volesse
esplorare il lato eccentrico della musica del nostro, queste righe le
dedicheremo al secondo, ad oggi il disco più maturo a nome Jeb Loy Nichols.
Strange Faith and Practice è stato registrato in UK con la collaborazione
di un settetto guidato dal bassista Riaan Vosloo - che ha curato
produzione e arrangiamenti - e per quanto si tratti di musicisti d'estrazione
jazz le redini del progetto sono mantenute saldamente dal songwriting
- solido e soulful come mai prima - di Nichols. La citata Sometime Somewhere
Somebody apre le danze con il piano di Jennifer Carr e le spazzole di
Tim Giles su cui s'innesta Nichols con voce e chitarra ma è il sax di
Mark Hanslip a impreziosire il brano inscenando quasi un duetto con
la voce solista. Il piano della Carr è una delle chiavi della riuscita
dell'album, l'introduzione di Can't Stay Here
è un tocco di classe, ma è il suo contributo nelle pieghe degli arrangiamenti
a renderla essenziale. Tra gli strumenti degni di menzione non va dimenticata
la voce di Nichols: ascoltate come disegna la melodia e il ritmo di Probably
Never Stop - un intereprete di Americana che ha fatto il pieno
di soul, un uomo del Delta venuto dal Wyoming.
Dei tredici brani che compongono l'album ce ne sono quattro che vedono
la bilancia pendere verso gli istinti jazz dei collaboratori di Nichols
(la title track, If I Can Come Home to You,
lo strumentale Interlude Two e Home
Wasn't Built in a Day) ma non al punto di deviare l'album dal
suo corso e anche verso la fine del lavoro s'incontrano brani ispirati
per scrittura e interpretazione come Cruel Winter,
un inverno ai cui rigori Nichols affida il compito di spazzare via il
ricordo di una lei. Quale direzione prenderà il volo di Nichols nel suo
prossimo album? Fiduciosi che ci spiazzerà ancora godiamoci l'anima intima
e passionale di questo disco. (Maurizio Di Marino)