Chuck
Ragan
Gold Country
[Side
One Dummy/ Rude rec.
2009]
Da Gainsville (Tom Petty vi dice qualcosa?) alla California punk, il percorso
artistico di Chuck Ragan ha seguito l'istinto e il sacro fuoco
del rock'n'roll, ingrossando la marea di quelle band nate sulla interminabile
scia del post-hardcore americano. Messi in soffitta gli Hot Water Music
- almeno un paio di lavori nei '90 da ascrivere al genere - la direzione
solista impressa alle sue canzoni è "franata" ancora una volta
dentro il fango della tradizione e del folk, quello suonato con le corde
strappate e la voce gridata alla luna. Gold Country scorre
dentro un fiume in piena che sta travolgendo molti rocker cresciuti con
lo sfrigolio delle valvole di un amplificatore e oggi riappacificati con
le loro radici: Chuck Ragan entra di diritto in quella schiera di reietti
che in questi anni ha visto tra i suoi protagonisti Ben Nichols (Lucero)
e il suo splendido lavoro solista della scorsa stagione, oppure i meno
noti Tim Barry e Austin Lucas. Ragazzoni americani che fra ribellione,
tatuaggi e estetica punk rock hanno trovato un posto nel loro cuore per
rispolverare strumenti acustici e ballate che conservassero la stessa
rabbia, soltanto indirizzandola verso altre strade, più antiche, polverose,
meno battute dalla civiltà.
Proprio insieme al citato Austin Lucas (riscoprite Somebody loves You,
se amate la malinconia country alla Bonnie Prince Billy) Chuck Regan aveva
sorpreso gli estimatori del suo precedente grido punk: Bristle Bridge
era un'opera scritta a quattro mani che anticipava i temi e la solitudine
dei suoi lavori solisti, cominciando dall'esordio per la Side One Dummy,
Feast of Famine. Gold Country si abbevera alla stessa fonte ma scuote
le acque con un folk d'assalto, un impianto elettro-acustico che ruba
l'anima blue collar rock del musicista e la imprigona in tradizionali
gighe country, con un uso abbondante del violino (l'onnipresente Jon
Gaunt), la comparsa di una batteria (il vecchio compagno George Rebelo
dai Hot Water Music) e naturalemente una pedal steel come corredo. Quest'ultima
guarda caso è nelle mani di Todd Beene, lo stesso che colorava
di orizzonti rosso fuoco The Last Pale Light in the West di Ben Nichols.
E il cerchio si chiude, fra la gloria stracciona di questo folksinger
dall'epica un poco "springsteeniana", se mi concedete l'ardito
paragone. Eppure sentite il trasporto e la grandeur di For
Goodness Sake in apertura, un folk rock che tiene la rotta
della semplicità, delle emozioni allo scoperto, esaltando quella voce
che come tanti altri colleghi si gioca tutto sul tormento e la passione,
assai poco sul calcolo.
Non è dunque un disco di belle maniere Gold Country, è semmai roots music
nel suo spirito più puro e indomito: vorremmo sempre sentire scalpitare
mandolino e fiddle come in Let it Rain
e Glory, rozza musica hillbilly che
si tinge d'Irlanda, riflesso o meglio nascosta influenza musicale di Chuck
Ragan che riaffiora spesso nell'intero album. In Cut
em Down ad esempio, con quell'elettricità ridotta all'osso
e un profumo irish che si diffonde fra il crescendo delle voci. Il disco
coinvolge e trascina proprio mancando di "rispetto" per le belle maniere
della tradizione: The Trench e 10
West sono folk song con un'animosità punk che Ragan non fa
nulla per nascondere: arriva da li la sua irosa esperienza artistica e
quell'esempio in testa mette a nudo la sua onestà di autore (lo confessa
in Good Enough for Rock and Roll).
Non è forse un fuoriclasse su questo terreno, ma conosce le armi della
commozione: sentite Rotterdam e
Don't Say a Word, basilare lezione di
alternative country, steel e chitarre a condurre melodie avvolte nella
nostalgia tipica del genere. In Ole Diesel spuntano
persino un violoncello (Luke Janela) e un pianoforte, solo per ribadire
che i ragazzi inquieti come Chuck Ragan sono capaci di stenderti con tutta
la loro ingenuità e schiettezza: basta una scarna trama acustica in Get
em All Home - chiaro il riferimento nel titolo ai ragazi americani
in guerra - per strappare una sincera emozione. (Fabio Cerbone)