inserito 02/10/2009

Richmond Fontaine
We Used to Think the Freeway Sounded Like a River
[
Decor/ Goodfellas
2009]



I Richmond Fontaine ci sono riusciti, sono riusciti insomma a bilanciare mirabilmente quella stridente, quasi ossessiva dualità che da sempre caratterizzava la loro musica: da un parte il taglio letterarrio, minimalista e spietato di Willy Vlautin, uno dei migliori sceneggiatori in musica della sua generazione, dall'altra lo scheletrico suono alternative country, dalle rifrazioni desertiche, della band. Un incontro che spesso restava monco, sospeso, a suo modo affascinante proprio per questo senso di instabilità, sempre ad un passo dalla forma compiuta. Per qualcuno We Used to think the Freeway Sounded Like a River (un romanzo fin dal titolo…) rappresenterà il disco più addomesticato della loro carriera, persino quello più "accessibile", in realtà appare soltanto il più meditato e completo, quello dove la disperazione americana dei personaggi narrati da Vlautin si accompagna ad una musica che suona livida più che mai, brillante nella sua cruda e intensa sensibilità rock.

Quest'ultimo, sia ben chiaro, ha il sapore della polvere, dei neon dei motel e dei casinò dove si è sedimentata la vita artistica e non solo dei Richmond Fontaine, ai margini del sogno americano, lo stesso che non è mai esistito per gente alla deriva, sconfitta, desiderosa soltanto di affogare o nascondersi, fra gioco, alcol, violenza, pronta però ad un incontro, accogliendo un'altra anima disfatta con la quale condividere la discesa. The Pull è simbolica, una sceneggiatura in piena regola, storia di un pugile senza arte né parte sottolineata da quel sound desertico di cui la band è ormai maestra (e che ritorna nella dolcissima Ruby and Lou o ancora in certi raccordi strumentali di estrema suggestione). L'impegno con cui vanno lette queste ballate dal grande nulla americano è strettamente collegato alla complessità dello stesso Vlautin. Vita difficile e tormentata la sua, tanto che We Used to think the Freeway… prende forma sul finire del tour di Thirteen Cities, precedente lavoro dal carattere più "solare" ma in definitiva di transizione: Willy Vlautin perde la madre e subisce in seguito un serio stop artistico a causa di problemi fisici. L'introspezione non gli è mai venuta meno e dunque riflette, rimugina, scrive materiale per un terzo romanzo (il secondo è ancora inedito dalle nostre parti, dopo Motel Life) e trova infine la chiave per aprire stanze autobiografiche.

Accade qui palesemente nella title track, cullata da un piano distante e chitarre centellinate a dovere, o ancora nella splendida melodia border (con tanto di fiati in salsa mariachi) di The Boyfriends e verso la chiusura, con la scura litania di Two Alone, esempio di quel talkin' nervoso e ricco di tensione in cui la band costruisce più silenzi che note. Evidente come la steel di Paul Brainard abbia questa volta abbandonato il centro della scena: l'ha sotituita con un pianoforte nostalgico e nascosto, facendosi abbracciare dalle chitarre dei compagni Dan Eccles e dello stesso Vlautin. L'effetto è quello da una parte di un alt-country rancoroso, libero di abbandonarsi letteralmente agli strali elettrici di 43 e della abbagliante Lonnie, dall'altra di un folk rock sorprendentemente limpido per i Richmond Fontaine, che in You Can Move Back Here potrebbero persino richiamare i REM, mentre in Maybe We Were Both Born Blue riescono a farti ingogiare il dolore e la solitudine con feroce bellezza. I Richmond Fontaine sono cresciuti si, ma non hanno smussato più di tanto gli spigoli: la loro anima vaga ancora in quella hard life americana dove non puntano mai i riflettori.
(Fabio Cerbone)

blog.richmondfontaine.com
www.myspace.com/richmondfontaine

 

 


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