inserito 24/07/2009

Gina Villalobos
Days on their Side
[
Face West records  
2009]



Aveva infilato una doppietta artistica non indifferente con i precedenti Rock'n'roll Pony e Miles Away: grazie a quei lavori Gina Villalobos poteva considerarsi a tutti gli effetti una delle nuove regine dell'Americana, piccole grandi voci femminili che nelle ultime stagioni hanno scosso l'ambiente con carattere e soprattutto con un bagaglio di suoni e canzoni che reclamano a gran voce un posto al sole. Su di lei abbiamo speso parole incoraggianti e confronti alla pari con altre colleghe, di cui non vale certo la pena rimangiarsi una sola parola: tutto questo preambolo in qualche modo mette le mani avanti, poichè non riesce a giustificare la tiepida accoglienza suscitata dal qui presente Days on Their Side. È il terzo album consecutivo ad essere concepito con la sua fedele congrega di musicisti (spiccano Kevin Halland alle chitarre, Sean Caffney alla pedal steel e Erik Colvin, anche produttore, all'organo), forse il nodo attorno al quale il disco stesso si ingarbuglia.

Ci sono infatti arrangiamenti, accordi, sonorità che si rivoltano continuamente su simili coordinate, una sequenza interminabile di ballate e quelli che potremmo chiamare "tempi medi", un country rock pastoso e passionale che tuttavia ritorna continuamente sui suoi passi. Allora nasce il sospetto che, pur in tutta la sua tenuta stilistica, Days on Their Side costituisca più un ciclo di riflessioni personali (il songwriting è costantemente volto all'animo umano, ad una certa malinconia dark, a complesse confessioni amorose) e meno un vero e proprio sforzo per spostare di un passo la maturazione dell'artista. L'accorato rintocco di Take a Beating, l'arioso scambio di chitarre e steel di Sun in My Eyes e String It Out, le gradazioni pop rock di Ring Around my Room (roba che Sheryl Crow non è più riuscita a scrivere) non sono affatto sconvenienti nel percorso di Gina Villalobos, sia chiaro, ma al giro di boa di Mortified e Pictures of Pictures le canzoni cominciano pericolosamente ad assomigliarsi troppo.

Immune
si svolge con tratti più sfuggenti, un caso isolato perché a partire dalla successiva Falling Away lo schema è presto indovinato: partenza attendista e scoppio successivo, fra saliscendi di umore e in un crescendo che possa esaltare i sussurri e la raucedine rock della Villalobos (il gioco non riesce però nella title track, dove mostra decisamente l'affanno). Non si tratta allora di mancanza di ispirazione o di canzoni mediocri, tutt'altro: avesse preso questa manciata di brani e li avesse giostrati con più accortezza, magari mediando fra gli alti e bassi della sua sensibilità musicale, avrebbe forse avuto materiale buono per un paio di album. Tutte insieme fanno invece un effetto un poco ridondante e ripetitivo.
(Fabio Cerbone)

www.ginavillalobos.com
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