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Gina
Villalobos
Days on their Side
[Face
West records 2009]
Aveva infilato una doppietta artistica non indifferente con i precedenti
Rock'n'roll Pony e Miles Away: grazie a quei lavori Gina Villalobos
poteva considerarsi a tutti gli effetti una delle nuove regine dell'Americana,
piccole grandi voci femminili che nelle ultime stagioni hanno scosso l'ambiente
con carattere e soprattutto con un bagaglio di suoni e canzoni che reclamano
a gran voce un posto al sole. Su di lei abbiamo speso parole incoraggianti
e confronti alla pari con altre colleghe, di cui non vale certo la pena
rimangiarsi una sola parola: tutto questo preambolo in qualche modo mette
le mani avanti, poichè non riesce a giustificare la tiepida accoglienza
suscitata dal qui presente Days on Their Side. È il terzo
album consecutivo ad essere concepito con la sua fedele congrega di musicisti
(spiccano Kevin Halland alle chitarre, Sean Caffney alla pedal
steel e Erik Colvin, anche produttore, all'organo), forse il nodo
attorno al quale il disco stesso si ingarbuglia.
Ci sono infatti arrangiamenti, accordi, sonorità che si rivoltano continuamente
su simili coordinate, una sequenza interminabile di ballate e quelli che
potremmo chiamare "tempi medi", un country rock pastoso e passionale
che tuttavia ritorna continuamente sui suoi passi. Allora nasce il sospetto
che, pur in tutta la sua tenuta stilistica, Days on Their Side costituisca
più un ciclo di riflessioni personali (il songwriting è costantemente
volto all'animo umano, ad una certa malinconia dark, a complesse confessioni
amorose) e meno un vero e proprio sforzo per spostare di un passo la maturazione
dell'artista. L'accorato rintocco di Take a Beating,
l'arioso scambio di chitarre e steel di Sun in
My Eyes e String It Out,
le gradazioni pop rock di Ring Around my Room
(roba che Sheryl Crow non è più riuscita a scrivere) non sono affatto
sconvenienti nel percorso di Gina Villalobos, sia chiaro, ma al giro di
boa di Mortified e Pictures
of Pictures le canzoni cominciano pericolosamente ad assomigliarsi
troppo.
Immune si svolge con tratti più sfuggenti, un caso isolato
perché a partire dalla successiva Falling Away
lo schema è presto indovinato: partenza attendista e scoppio successivo,
fra saliscendi di umore e in un crescendo che possa esaltare i sussurri
e la raucedine rock della Villalobos (il gioco non riesce però nella title
track, dove mostra decisamente l'affanno). Non si tratta allora di mancanza
di ispirazione o di canzoni mediocri, tutt'altro: avesse preso questa
manciata di brani e li avesse giostrati con più accortezza, magari mediando
fra gli alti e bassi della sua sensibilità musicale, avrebbe forse avuto
materiale buono per un paio di album. Tutte insieme fanno invece un effetto
un poco ridondante e ripetitivo.
(Fabio Cerbone)
www.ginavillalobos.com
www.myspace.com/ginavillalobos
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