inserito 06/03/2009

William Elliott Whitmore
Animals in the Dark
[
Anti/ Self  
2009]



Lasciatosi alle spalle quella che potremmo definire una sorta di trilogia southern folk, asciutta, spoglia e tremendamente asservita al sapore acre della sua terra, un piccolo appezzamento nella Lee County, Iowa, sulle rive del Mississippi, William Elliott Whitmore ricomincia esattamente da capo: la contraddizione, o se volete la coerenza del personaggio, a seconda dei punti di vista, è proprio racchiusa in questa sua autarchia musicale, che in Animals in the Dark sembrerebbe presentarcelo con una verve più vivace e disposta all'incontro con altri musicisti, ma in realtà non si sposta di un millimetro dalla sua visione ancestrale dell'american music. Whitmore rimane ancora un'anima perduta, un ragazzo cresciuto nella quiete della fattoria ereditata dal padre, dove ha costruito il suo piccolo studio e si è rintanato con banjo e chitarre per rivoltare il terreno del folk, del country più rurale e acerbo, del gospel bianco, mettendo in bocca parole pesanti come macigni.

In apparenza il passaggio dalla Southern alla più agguerrita e quotata Anti dovrebbe anche sancire la svolta "elettrica", e su questo giocano non poco anche le note biografiche, ma avendo seguito i suoi passi fin dagli esordi non possiamo non notare uno scarto in fondo praticamente impercettibile: spuntano, è vero, ritmiche sceletriche, qualche organo a riempire l'aria, ma giunti alla radice del suono Whitmore risulta unicamente raffigurato dalla sua voce, da quel canto straziato e profondo che pare appartenere ad un fantasma sbucato dall'Anthology of Folk Music di Harry Smith. Saprà ammaliare dunque tutti coloro che cercano nel songwriting la magia, il mistero, l'affascinante dipanarsi di una voce, ma difficilmente condurrà sulla sua strada nuovi adepti che non aprezzino ballate così scarne e sincere.

Perché alla straniante accoppiata fra batteria da marching band e intonazione gospel di Mutiny, il testo più politico e arrabbiato che abbia mai scritto il nostro sullo stato della nazione americana, allo sbuffare incalzante di Old Devils, al dolce e classico carattere soul della crescente preghiera di There's Hope for You o della gemella Let The Rain Come In, corrispondono altrettante discese nella purezza che ha sempre contraddistinto Whitmore: ecco allora sbucare la solitaria Who Stole the Soul, il country blues ossuto di Johnny Law, fangoso come le acque del Mississippi, o l'autobiografica Lifetime Underground, condotta dal banjo, ode alla sua vita errabonda di musicista, busker trascinato a suonare per la gente in giro per il mondo. Spirito libero quello di Whitmore, una maschera d'altri tempi che non ha timore di intonare in chiusura una gioiosa, e quindi contraddittoria fin dal titolo, A Good Day to Die: ha il corpo segnato dai tatuaggi di un vecchio marinaio, la voce e forse anche l'anima di uno schiavo del deep south, ma prova a farsi largo con le sue ballate in questa grande, confusa modernità.
(Fabio Cerbone)

www.williamelliottwhitmore.com
www.anti.com


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