Una lunga pausa per la Willy Clay Band prima di riprendere la via
del loro morbido country rock, direttamente dal circolo polare artico.
La band svedese, originaria di Kiruna - regione ai confini con la Lapponia,
grande freddo e isolamento nonché una lentezza quasi filosofica nel prendere
la vita, che deve avere influito anche sui musicisti - si era portata
a casa non pochi applausi (compresi i nostri) per il deliziono affresco
Americana di Rebecca
Drive. Disco registrato in Tennessee, che vantava il sostegno
di Will Kimbrough alla produzione e di gente come Garth Hudson (the Band)
e Bucky Baxter in sessione, era un lavoro che illuminava le armonie vocali
e il songwriting di Tony Bjorkenvall e Reine Tuoremaa, nomi assai poco
adatti a degli outsider del genere più tradizionalista. Eppure
quell'album brillava di buon gusto e ariose ballate che nel nuovo episodio,
Blue, si affievoliscono quel tanto da ridimensionare in
parte la band.
Hanno forse aspettato fin troppo a rifarsi vivi, non sfruttando a pieno
le possibilità offerte dall'esposizione internazionale del predecessore.
Il merito delle collaborazioni nascondeva dunque qualche immaturità della
stessa Willy Clay Band? Poco probabile, anche perché le capacità compositive,
la cura del suono, la brillante progressione delle armonie è ancora al
centro della loro musica. Sono soltanto brani meno indovinati, a cui certo
manca la malizia e la direzione aritistica dei loro "cugini" americani.
Blue è comunque un disco ben al di sopra del dilettantismo Americana che
si può respirare in molte recenti produzioni: ancora idealmente collocata
a metà strada fra i Blue Rodeo (per citare una fonte più vicina ai nostri
giorni) e la west coast degli Eagles (per andare alla radice), la Willy
Clay Band ama i tempi medi e le ballate agresti che accarezzano il passato.
Non è comunque un puro esercizio di stile, nonostante le belle maniere
qui siano una regola ferrea.
I risultati migliori arrivano nella prima parte, tra una morbida Most
of all, il sound rurale di Jailbird,
il folk rock cristallino di Mighty Good Time
e True Lies, fino al raffinato country
di Stay Down, con la pedal steel di
Orjan Maki che scioglie le redini. Blue è un disco che abita le stanze
più tenui e assolate del genere Americana, fornendo una via credibile
anche in Europa ad uno stile di cui evidentemente la California country
rock dei 70s resta maestra. Le melodie nostalgiche che scorrono nelle
vene della Willy Clay Band ricordano quella lontana stagione in Solid
Ground, Playing in a band,
colorandosi di pop in Shading the Sound
e tornando alla più ruspante tradizione in Under
a Spell. Nulla da recriminare dunque sull'attenzione con cui,
anche a livello strumentale, costruiscono la loro ricetta. Manca soltanto
qualche canzone più incisiva e magari un po' meno di leziosità, quella
che avrebbe reso Blue un album dalle fattezze più robuste. (Fabio Cerbone)