inserito 10/11/2010

Damien Jurado
Saint Bartlett
[Secretly Canadian  2010
]



Damien Jurado è uno dei songwriter più dotati della sua generazione. Capace di immedesimarsi con sensibilità quasi carveriana nelle vite degli altri, di ricrearne i chiaroscuri sulla tela delle sue canzoni - tanto che un critico americano, Thom Jurek, l'ha battezzato "king of miniature still lifes" - ci consegna da più di dodici anni dischi di qualità sorprendentemente alta con una regolarità disarmante - in media uno ogni due anni (tacendo di ep, collaborazioni e progetti paralleli). Forse è questa sua regolarità, questo status di apparente raggiunta perfezione all'interno di uno standard (quello del bozzetto folk crepuscolare, se vogliamo semplificare il discorso), ad averlo relegato in un angolo in cui rischia qualche volta di essere dimenticato. Anche noi, dopo essercene occupati ai tempi di Where Shall You Take Me? e dei due album seguenti, abbiamo poi trascurato quello che è forse il suo lavoro più vario e compiuto, quel Caught in the Trees (2008) che mescolava ai consueti languori introspettivi una sensibilità pop sfrontata e finanche qualche scarica elettrica memore della gioventù grunge del suo autore.

Per chi ha familiarità con l'evolversi del percorso di Jurado, lungo il quale ad un album più arrangiato e "denso" di solito segue un lavoro più essenziale e crudo, era lecito aspettarsi dal nuovo disco un ritorno all'intimismo folk nella sua forma più spoglia. E' vero solo a metà. Saint Bartlett - registrato in una settimana - gode infatti della collaborazione del compagno di etichetta Richard Swift, teorico e praticante di un pop retrofuturista in salsa lo-fi, che per forza di cose spinge le canzoni di Jurado su terreni poco (da lui) praticati. La prima parte è quindi segnata dalle deviazioni: Cloudy Shoes è un pop orchestrale a bassa fedeltà, mentre Arkansas e Throwing Your Voice trapiantano lo Spector-sound nei boschi del Nordovest e il folk-pop di Rachel & Cali strizza l'occhio agli Eels. Wallingford, poi, resuscita i Crazy Horse di Ragged Glory per due intensi minuti e mezzo e li mette a suonare in una galleria del vento, ricordandoci che Jurado è uno dei più credibili discepoli di Neil Young (diciamo che se la gioca alla pari con Jason Molina…), e non solo nella sua veste bucolica.

Nella seconda parte l'album si normalizza, la mano di Swift diventa meno intrusiva (giusto qualche interferenza, come i disturbi radio in sottofondo all'elegiaca Kansas City) e si prosegue per lo più sui binari già oliati di un alt-country canonicamente dimesso. Che dona momenti di toccante, spoglia semplicità e grazia paesaggistica (Harborview e The Falling Snow, quest'ultima con un minimale ma indovinato arrangiamento per piano, batteria e coro che restituisce un senso di minaccia incombente) e trova il suo apice lirico nell'interrogazione sul mistero della morte di Kalama. Probabilmente niente di imprescindibile, se è questo che volete sapere. Solo l'ennesimo, puntuale bel disco di Damien Jurado.
(Yuri Susanna)

www.damienjurado.com
www.myspace.com/damienjurado



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