Phosphorescent
Here's To Taking It Easy
[Dead
Oceans 2010]
Phosphorescent aka Matthew Houck, ha sempre dovuto portarsi appresso
nel passato lo scomodo fardello dell'inevitabile confronto con Will Oldham, sia
per il timbro della sua voce sia per il personale stile musicale tra folk rock
e alternative country, che ha contraddistinto le sue produzioni. Dopo l'interlocutorio
tributo a Willie Nelson con To
Willie, i Phosphorescent riaccendono i nostri cuori con questo Here's to Taking It Easy (da notare in copertina gli occhi di una tigre
in sottofondo a scrutare un paesaggio tropicale). L'atmosfera che si respira è
scanzonata, molto rilassata proprio come il titolo sta a indicare "to take it
easy". Sembra in un certo senso di passare dalla profondità oscura della notte
dell'iniziale fase neo-folk-indie dei Phosphorescent alla più quieta serenità
del folk-rock di quest'opera. Si ha la sensazione che tutto suoni a meraviglia
grazie alla rodata band che da due anni ormai accompagna Matthew in tournée in
giro per il mondo. La line up comprende Scott Stapleton al piano, Jeff Bailey
al basso, Chris Marine alla batteria, Jesse Anderson Ainslie alla chitarra e Ricky
Ray Jackson alla pedal steel.
Non siamo di fronte ad un'opera in solitario
come era Pride del 2007 ma in presenza di un una vera band che porta con se l'ombra
dei Crazy Horse e che ha come termine di paragone la famosa trilogia di Neil Young
(la Doom o Ditch Trilogy). Ingegnere del suono é Stuart Sikes (White
Stripes, Cat Power) vincitore di un Grammy con l'ultimo acclamato album di Loretta
Lynn, Van Lear Rose, che aiuta a donare all'album un sound spensierato (o Loose
come dicono oltreoceano). Scoppiettante inizio con il primo singolo It's
Hard To Be Humble (when you're from Alabama) che è un omaggio alla
terra natale di Matthew, molto soul con tanto di fiati e accenti elettrici.
Nothing was stolen (Love Me Foolishly) é malinconica al punto giusto
e ricorda molto Bon Iver per il timbro della voce profondo e riflessivo. Resta
comunque la meno convincente della raccolta. Si entra nel vivo dell'opera con
We'll be Here Soon intima e struggente, con
una steel che regala al brano quel suono southern di frontiera, con un bel ritornello
che esplode in un susseguirsi di strumenti legati alla voce di Matthew.
In The Mermaid Parade,
secondo hit dell'album, sembra di ascoltare Jason Molina per il crescendo finale:
elettrico e ben costruito che lo rende un instant classic. I
Don't Care If There's Cursing, che parla dell'apatia per il mondo e
delle frustrazioni quotidiane, è contagiosa ed emozionale. Tell
Me Baby è molto d'atmosfera, scorre via pigramente ed é adatta per
essere ascoltata in un pomeriggio soleggiato. Hej, me
I'm light è la canzone più bella del lotto: inizio con voce sussurrata,
arpeggio di chitarra e basso ipnotico, seguono i cori di tutta la band che ripetono
il titolo e un finale con un assolo di chitarra da brivido nella spina dorsale.
Ben arrangiata, vale il prezzo della raccolta. Heaven
Sittin' Down è puro country rock polveroso che rende omaggio a Willie
Nelson e sembra cantata sotto il portico di casa alla maniera dei Delaney and
Bonnie. Los Angeles ha Neil Young e i Crazy
Horses nel cuore: "fosforescente" ed epica cavalcata elettrica di quasi nove minuti,
con la steel in bella evidenza e i cori ad accompagnare la voce. Un album maturo
che ha la sua identità e che suona come un classico dei '70, pur mantenendosi
attuale e senza scadere in una mera copia di qualcosa di già sentito. (Emilio
Mera)