C'è sempre l'imbarazzo della scelta su da che parte iniziare a raccontare
un'opera prima, per cui partiamo dalle cose semplici. I Villagers vengono
da Dublino e Becoming A Jackal è il loro primo album, ma già in
precedenza avevano licenziato il giusto quantitativo di singoli ed EP sufficiente
a far chiacchierare la rete sulla loro venuta. Conor O'Brien è il nome del nuovo
genietto da segnarsi come talento da seguire, un artista dotato del necessario
talento nell'unire in uno stesso album citazioni di ogni tipo, che dall'Inghilterra
arrivano in America passando per pop, new wave, moderno indie rock e un pizzico
di originalità che non guasta. Completano la band i compari Tommy McLaughlin,
James Byrne, Danny Snow e Cormac Curran, tutti con poche esperienze alle spalle,
e soprattutto tutti in odore di essere solo compagni occasionali di un viaggio
personale. Di O'Brien a Dublino si era già parlato molto nel 2006 per il disco
pubblicato insieme agli Immediate (In Towers and Clouds, un piccolo cult-record
irlandese), ma quella era una vera band, con una più decisa parentela con l'elettronica
e new wave di fine anni 70.
Voce sofferta e tremolante, con quel piglio
un po' scazzato che va un po' di moda tra i nuovi eroi (e tra l'altro non sfugge
una certa somiglianza con il Conor Oberst dei Bright Eyes), O'Brien fa parte della
categoria di artisti che scrivono canzoni con urgenza, ma si scervellano a lungo
per trovare un modo per farlo nella maniera meno ovvia possibile. Per cui è difficile
darvi delle coordinate precise per capire questo disco sulla carta, Becoming A
Jackal inizia infatti con i toni spettrali di I Saw
The Dead, tra archi e pianoforti da colonna sonora (ho visto i morti
ballare e mi chiedono di raggiungerli…), prosegue con l'aria da songwriter delicato
(il paragone fatto dalla stampa inglese con Paul Simon può anche essere calzante)
della title-track, fino all'incedere alla Okkervil River di Ship
Of Promises, sicuramente uno dei brani più notevoli della raccolta
(una bella riflessione sui ruoli che abbiamo da recitare nella vita di tutti i
giorni). Il disco poi rallenta, con una Home
che ricorda alcune stramberie dei Two Gallants e i geniali quadretti descritti
in The Meaning Of The Ritual, ma prima della
fine c'è di che godere per il bellissimo scherzo pop di The
Pact (I'll Be Your Fever) e Set The Tigers
Free.
Nonostante l'album sia di quelli da ascoltare a lungo
e digerire con calma, quello che traspare è che poi alla fine tanto prodigarsi
tra strumenti diversi e ricerca di ritmiche non convenzionali, si traduca in un
disco molto melodico, diremmo quasi "pop" solo per non usare una parola come "easy"
che potrebbe essere interpretata come un dispregiativo. Invece la forza di queste
canzoni è proprio quella di avere spesso una musica melodiosa che contrasta con
le sue liriche oscure, tipiche di un giovane in pieno cambiamento e maturazione.
C'è ancora da lavorare per diventare grande, ma le premesse all'esordio sono già
quelle giuste. (Nicola Gervasini)