Ben Lee
Deeper into Dream
[
Lojinx  
2011]

www.ben-lee.com


File Under: pop

di Fabio Cerbone (07/01/2012)

Rappacificato con se stesso e con la sua carriera, Ben Lee nasconde in questa presunta serenità artistica un percorso che in realtà ha compiuto passi da gambero: sono lontani infatti gli esordi fulminanti per l'etichetta dei Beastie Boys (era il 1995 e Granpaw Would una sorta di promessa per il cantautorato post moderno nato dopo l'esplosione di Beck), così come la fugace stagione di promesse e stardom vissuta al fianco di qualche grossa etichetta (il tonfo di Breathing Tornados, ad esempio, forse punto di svolta al ribasso di tutta la faccenda). Stabilitosi defnitivamente nel Laurel Canyon in California, il cantautore australiano ha messo su famiglia (la figlioletta appare anche nei credits del nuovo lavoro), trovando nuove chance e nuovi adepti nel mercato indipendnete di lusso (prima New West, oggi Lojinx per la distribuzione europea), senza di fatto abbandonare però l'idea di ritornare in carreggiata con un altro clamoroso exploit. Ben Lee sbandiera invece fieramente l'idea di un disco, Deeper into Dream, nato intorno ad un concept e soprattutto, dice egli stesso, pensato senza l'assillo di cercare una hit a tutti i costi.

Prendiamo nota e siamo felici di questa sua diversa stagione, nonostante la sua musica continui imperterrita ad essere di una inconsistenza quasi imbarazzante, che difficilmente musicisti e collaboratori sparsi (c'è anche il violino di Petra Haden nel mezzo) riescono a risollevare dalla cattiva sorte. Dopo tre anni di intensa analisi sul lettino di uno psicologo, così raccontano le cronache, Lee decide di mettere in musica i suoi sogni, così come quelli della gente a lui vicina, compresi i familiari (li sentiamo parlottare negli estratti, inutili, di My First Dream e My Second Dream). Il forte concetto alla base del progetto è che la componente onirica di ciascuno sveli il carattere artistico delle persone, anche le più impensabili, scacciando la visione dell'arte come gesto elitario, di pochi. I propositi di Ben Lee avranno quindi anche una radice democratica e un po' ingenua, ma il tutto pare avere dato forma a canzoncine che non si discostano dall'andazzo incolore dei precedenti The Rebirth of Venus e Ripe, dischi di per sé già parecchio confusi.

Oggi l'effetto mascherato è quello di una concentrazione maggiore, ma non basta una buona idea a coprire la latitanza delle canzoni vere e proprie. Per qualcuno Lee scrive pop music di qualità troppo intelligente per diventare appetibile al grande pubblico, mi permetto di dissentire: Indian Myna, Pointless beauty, When the Light Goes Out, Glue sembrano più che altro esercizi di mainstream rock stralunato e con vaghi accenti psichdelici (I Want my Mind Back…forse un tentativo di imitare maldestramente i Flaming Lips?) dove l'essenza melodica del genere non è manco sfiorata, tanto suonano incolore. Se volesse lezioni su come scrivere un brano pop arguto e spiazzante, la prossima volta provi a bussare alla porta di Andy Partridge e degli XTC.


  


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