Rappacificato con se stesso e con la sua carriera, Ben Lee nasconde in
questa presunta serenità artistica un percorso che in realtà ha compiuto passi
da gambero: sono lontani infatti gli esordi fulminanti per l'etichetta dei Beastie
Boys (era il 1995 e Granpaw Would una sorta di promessa per il cantautorato
post moderno nato dopo l'esplosione di Beck), così come la fugace stagione di
promesse e stardom vissuta al fianco di qualche grossa etichetta (il tonfo di
Breathing Tornados, ad esempio, forse punto di svolta al ribasso di tutta
la faccenda). Stabilitosi defnitivamente nel Laurel Canyon in California, il cantautore
australiano ha messo su famiglia (la figlioletta appare anche nei credits del
nuovo lavoro), trovando nuove chance e nuovi adepti nel mercato indipendnete di
lusso (prima New West, oggi Lojinx per la distribuzione europea), senza di fatto
abbandonare però l'idea di ritornare in carreggiata con un altro clamoroso exploit.
Ben Lee sbandiera invece fieramente l'idea di un disco, Deeper into Dream,
nato intorno ad un concept e soprattutto, dice egli stesso, pensato senza l'assillo
di cercare una hit a tutti i costi.
Prendiamo nota e siamo felici di questa
sua diversa stagione, nonostante la sua musica continui imperterrita ad essere
di una inconsistenza quasi imbarazzante, che difficilmente musicisti e collaboratori
sparsi (c'è anche il violino di Petra Haden nel mezzo) riescono a risollevare
dalla cattiva sorte. Dopo tre anni di intensa analisi sul lettino di uno psicologo,
così raccontano le cronache, Lee decide di mettere in musica i suoi sogni, così
come quelli della gente a lui vicina, compresi i familiari (li sentiamo parlottare
negli estratti, inutili, di My First Dream
e My Second Dream). Il forte concetto alla
base del progetto è che la componente onirica di ciascuno sveli il carattere artistico
delle persone, anche le più impensabili, scacciando la visione dell'arte come
gesto elitario, di pochi. I propositi di Ben Lee avranno quindi anche una radice
democratica e un po' ingenua, ma il tutto pare avere dato forma a canzoncine che
non si discostano dall'andazzo incolore dei precedenti The Rebirth of Venus e
Ripe, dischi di per sé già parecchio confusi.
Oggi l'effetto mascherato
è quello di una concentrazione maggiore, ma non basta una buona idea a coprire
la latitanza delle canzoni vere e proprie. Per qualcuno Lee scrive pop music di
qualità troppo intelligente per diventare appetibile al grande pubblico, mi permetto
di dissentire: Indian Myna, Pointless
beauty, When the Light Goes Out,
Glue sembrano più che altro esercizi di mainstream
rock stralunato e con vaghi accenti psichdelici (I Want
my Mind Back…forse un tentativo di imitare maldestramente i Flaming
Lips?) dove l'essenza melodica del genere non è manco sfiorata, tanto suonano
incolore. Se volesse lezioni su come scrivere un brano pop arguto e spiazzante,
la prossima volta provi a bussare alla porta di Andy Partridge e degli XTC.