Steve
Earle I'll Never Get Out of This World
Alive
[New
West
2011]
Ripartendo
dall'icona Hank Williams Steve Earle torna all'essenza del suo ruolo di
storyteller, alla scrittura più asciutta che potesse immaginare, lasciandosi alle
spalle rivoluzioni e antagonismi, per abbracciare una saggezza quasi filosofica.
Non si è ammorbidito, perché, come giustamente sottolinea egli stesso nelle note
di presentazione, ogni singolo verso di I'll Never Get Out of this Wold
Alive fa i conti in qualche modo con il senso di mortalità del mondo,
guardandolo spesso dalla prospettiva degli ultimi, degli esclusi. Tuttavia, scegliere
come titolo quella canzone di Hank non è una provocazione senza significato: l'ultimo
spettrale singolo che il fuorilegge del country incise poco tempo prima di morire,
in una fredda notte di capodanno del 1953, è un monito per lo stesso Earle e la
sua vita al limite, oltre che il titolo di un nuovo racconto da lui firmato e
che verrà pubblicato proprio in questo periodo, raccontando le gesta di Doc Ebersole
e del fantasma del suo vecchio paziente, guarda caso Hank Williams.
In
questo intreccio di musica, narrativa e leggenda l'attenzione non poteva che ricadere
sulle parole e sulla vulnerabilità di un songwriter che non avrà più l'irruenza
rock dei giorni migliori, ma si è trasformato davvero in un maestro di equilibrio
e sobrietà: chiamando T Bone Burnett e la sua squadra di fidati
collaboratori (ci sono Dennis Crouch e Jay Bellerose alla sezione ritmica, mentre
Greg Leisz pennella alla steel) il risultato era "prevedibile", dando
forma a ballate austere, asciugate nel suono prevalentemente acustico, ma capaci
di riprendere i fili della tradizione più densa dell'american music. Si
potrebbe partire ad esempio dal crudo suono hillbilly che trafigge l'ironica
Little Emperor, dominata dal violino di Sara Watkins e dal mandolino
che trascina Earle persino ai tempi di Train a Comin', ritorno dagli inferi che
fece giustamente gridare al miracolo. Al linguaggio e alle scoperte musicali di
quel periodo una buona parte del repertorio di I'll Never Get Out of this Wold
Alive si ricollega immediatamente, seppure interpretato con la maturità di oggi:
un saliscendi country della fattura di Waitin' on the
Sky erano anni che non sbucava dalla penna di Steve e l'impatto è diretto,
una travolgente danza sul border che lancia manciate di brusca terra texana. Molly-O
è addirittura un "bagno di sangue" degno della migliore memoria delle
murder ballads, suono scuro e ancestrale che viene riscattato dalla dolcezza di
The Gulf of Mexico,
God Is God e I Am a Wanderer,
le ultime due donate a suo tempo alla musa Joan Baez, ma oggi ripescate con più
fedeltà al loro carattere originale.
Ritorna qui l'affetto per Woody Guthrie
e per una canzone circolare, che nella sua semplicità esalta i toni spezzati della
voce, invecchiata come un ottimo whisky d'annata, e la stessa produzione di Burnett.
Quest'ultimo non ha invaso il campo, riuscendo a cogliere lo spirito denso, eppure
disarmante di molte melodie: l'effetto è evidente in Every
Part of Me, folk song già sentita forse, che pure suona come un riassunto
dello stile di una vita, o ancora nel commovente ritratto di Lonely
Are the Free. Lo zenith di questa nuova espressività è probabilmente
racchiuso dalla conclusiva This City, clamorosa
dedica all'anima ferita di New Orleans: un brano già apparso nella colonna sonora
della serie televisiva Treme (dove Earle recita un ruolo) e arrangiato
sapientemente dal maestro Allen Toussaint, che sembra misurare l'intervento
dei fiati e l'afflato soul della canzone, modellandolo sul tono accorato dell'interprete.
La prima edizione di I'll Never Get Out of This World Alive compare anche
in versione ampliata con un Dvd che include il video del "making of"
del disco e un'intervista allo stesso Steve Earle (Fabio Cerbone)