The Black Keys - thickfreakness Fat Possum 2003

In principio è un feedback di hendrixiana memoria, poi arriva un riff granitico che è un'ode all'essenza stessa del rock'n'roll: chitarra e batteria bastano e avanzano per Dan Auerbach e Patrick Carney. Thickfreakness è un sabba ritmico guidato da un'elettrica che bada a riempire i vuoti, giocando sulle rozze note del delta-blues più viscerale, quello tanto familiare in casa Fat Possum e trasformandolo in "white noise". Rumore bianco di due giovanotti che sono cresciuti nell'anonima Akron, Ohio e i juke-joints del profondo Sud li hanno solo sognati tra le mura della loro stanza. Fino ad oggi tappa secondaria nella storia della musica popolare americana, Akron è nota soprattutto per i Devo, maestri del nonsenso new-wave. Ora però ci sono i Black Keys e i fatti potrebbero assumere una svolta decisiva: niente di epocale, si capisce, ma i quaranta minuti scarsi del loro secondo lavoro (The Big Come Up l'esordio di due anni fa) sono un pugno nello stomaco alle indigeste smancerie produttive della moderna pop music. Francamente rappresentano anche una bella lezione di stile per tutti questi presunti revivalisti dell'ultima ora: altro che White Stripes, Strokes e compagnia cantante, basterebbe l'adrenalina blues-rock di Hard Row per zittire tutti. Auerbach, giovanissimo, canta con una voce dalle dinamiche ben più mature: negroide, cruda, è il completamento ideale della sue chitarra, un piccolo riassunto di cinquant'anni di rock'n'roll. Carney ci mette del suo, con una batteria ridotta all'osso ed una produzione che praticamente non esiste. Sentiteli formare un "wall of sound" di straordinaria efficacia in Set You Free, punk-blues sulla linea di Jon Spencer, o nella cover di Richard Berry Have Love Will Travel. Hurt Like Mine, If You See Me e l'insistente lavoro di slide in Hold Me in Your Arms sono ruvide convulsioni blues sulla scia di gente come T-Model Ford e R.L.Burnside. Si svela finalmente tutta la loro devozione per questi ultimi custodi viventi del verbo del Mississippi, tanto da omaggiare l'immenso Junior Kimbrough nell'ipnotica Everywhere I Go. Il sipario cala con un messaggio eloquente: in I Cry Alone resta solo lo scheletro malmesso della canzone, l'essenza sono il ritmo e i silenzi...i Black Keys hanno capito tutto del rock'n'roll e noi faremmo bene a seguirli
(Fabio Cerbone)

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