Sarà che la primavera comporta un po' di severità
in più, sarà che fino ad ora l'anno in corso s'è dimostrato un po' fiacco
(perlomeno dal punto di vista delle uscite discografiche), sarà quel che
volete voi, ma ultimamente mi sembra di essere invaso da tanti, troppi
dischi "medi", "carini", "graziosi" etc... mai davvero indispensabili,
però. Su Jay Bennett, per dire, puntavo di cuore, anche perché
il precedente The Palace At 4am (Part 1), cointestato a Edward Burch (che
qui si limita a provvedere di tanto in tanto alle harmonies) era stato
un bell'esempio di pop-rock graffiante, inventivo e melodicamente ineccepibile.
E poi, non puntereste anche voi su chi ha contribuito in misura determinante
alla realizzazione di quei dischi meravigliosi che si intitolano A.M.,
Being There e Summerteeth (Wilco, of course)? Il punto di partenza era
positivo. Jay Bennett dev'essere uno a cui non piace starsene arroccato
sulle posizioni guadagnate, uno di quei tizi in preda a perenne insoddisfazione
che debbono cambiare stile a ogni album. Così, rispetto alla magniloquenza
à la Beach Boys del predecessore di due anni fa, Bigger Than Blue
suona austero e minimalista, composto com'è di solitarie ballate realizzate
(quasi) sempre dal solo Bennett in splendida solitudine. Le eccezioni
non mancano, ovviamente, e riguardano soprattutto l'intensa elettrificazione
di Let's Count Our Losses e It's Hard, due episodi dalla
decisa chiave rock in cui tornano a farsi sentire la sezione ritmica dei
vecchi compagni d'armi Keith Coomer e John Stirratt. C'è
anche una stramba Reasons For You To Love Me (Cars Can't Escape),
scritta a quattro mani con Jeff Tweedy, nella quale, tra effetti,
loops, sintetizzatori e repentini cambi di canale, accade veramente di
tutto, e non sempre con buone giustificazioni. Impossibile non pensare,
tuttavia, che la più intima ragion d'essere del disco risieda nel rude,
asciutto romanticismo di una My Little Wicked One o nella sentita
"copertura" di quella struggente Cajun Angel che fu di Woody Guthrie,
oppure ancora nella superba Songs That Weren't Finished, dove il
pastoso baritono di Bennett sa esprimersi al meglio e gli essenziali arpeggi
della chitarra acustica evocano un immaginario di frontiera non distante
dal Dave Alvin più ispirato. Purtroppo, il resto del disco è puro soprammercato.
Non brutto, magari, ma senz'altro privo di urgenza, di particolare ispirazione
o di qualsiasi altro particolare serva a rendere memorabile una canzone.
La speranza, a questo punto, è che al terzo disco il buon Jay sappia trovare
una sua via, e che sia quella definitiva, perché di dischi così, in capo
a 12 mesi, ne escono a bizzeffe.
(Gianfranco Callieri)
www.jay-bennett.com
www.undertowmusic.com
|