Jay Bennett - Bigger Than Blue Undertow 2004

 

Sarà che la primavera comporta un po' di severità in più, sarà che fino ad ora l'anno in corso s'è dimostrato un po' fiacco (perlomeno dal punto di vista delle uscite discografiche), sarà quel che volete voi, ma ultimamente mi sembra di essere invaso da tanti, troppi dischi "medi", "carini", "graziosi" etc... mai davvero indispensabili, però. Su Jay Bennett, per dire, puntavo di cuore, anche perché il precedente The Palace At 4am (Part 1), cointestato a Edward Burch (che qui si limita a provvedere di tanto in tanto alle harmonies) era stato un bell'esempio di pop-rock graffiante, inventivo e melodicamente ineccepibile. E poi, non puntereste anche voi su chi ha contribuito in misura determinante alla realizzazione di quei dischi meravigliosi che si intitolano A.M., Being There e Summerteeth (Wilco, of course)? Il punto di partenza era positivo. Jay Bennett dev'essere uno a cui non piace starsene arroccato sulle posizioni guadagnate, uno di quei tizi in preda a perenne insoddisfazione che debbono cambiare stile a ogni album. Così, rispetto alla magniloquenza à la Beach Boys del predecessore di due anni fa, Bigger Than Blue suona austero e minimalista, composto com'è di solitarie ballate realizzate (quasi) sempre dal solo Bennett in splendida solitudine. Le eccezioni non mancano, ovviamente, e riguardano soprattutto l'intensa elettrificazione di Let's Count Our Losses e It's Hard, due episodi dalla decisa chiave rock in cui tornano a farsi sentire la sezione ritmica dei vecchi compagni d'armi Keith Coomer e John Stirratt. C'è anche una stramba Reasons For You To Love Me (Cars Can't Escape), scritta a quattro mani con Jeff Tweedy, nella quale, tra effetti, loops, sintetizzatori e repentini cambi di canale, accade veramente di tutto, e non sempre con buone giustificazioni. Impossibile non pensare, tuttavia, che la più intima ragion d'essere del disco risieda nel rude, asciutto romanticismo di una My Little Wicked One o nella sentita "copertura" di quella struggente Cajun Angel che fu di Woody Guthrie, oppure ancora nella superba Songs That Weren't Finished, dove il pastoso baritono di Bennett sa esprimersi al meglio e gli essenziali arpeggi della chitarra acustica evocano un immaginario di frontiera non distante dal Dave Alvin più ispirato. Purtroppo, il resto del disco è puro soprammercato. Non brutto, magari, ma senz'altro privo di urgenza, di particolare ispirazione o di qualsiasi altro particolare serva a rendere memorabile una canzone.
La speranza, a questo punto, è che al terzo disco il buon Jay sappia trovare una sua via, e che sia quella definitiva, perché di dischi così, in capo a 12 mesi, ne escono a bizzeffe.
(Gianfranco Callieri)

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