Bonnie Prince Billy, alias Will Oldham, ci consegna una delle più
struggenti pagine della recente country music, decidendo di reinterpretare
una selezione del ricchissimo songbook dato alle stampe sotto le innumerevoli
sigle di Palace, Palace Brothers e Palace Music. Attraverso quelle creature
artistiche Oldham aveva attribuito nuovi significati al linguaggio del
folksinger, riportando in auge suoni acustici, depressione e malinconia.
Oggi, seguendo un persorso del tutto naturale, è emersa prepotentemente
l'anima più tradizionale che vagava in dischi quali Viva Last Blues
o Days in The Wake: parliamo di radici dunque, perchè tutti, prima
o poi, vi fanno ritorno, e se si tratta di musicisti intelligenti l'operazione
assume un significato che va ben oltre il semplice esercizio di stile.
Certo, si resta basiti scorrendo i nomi dei musicisti coinvolti: il piano
leggendario (nei dischi di George Jones, Patsy Cline e mille altri) di
Hargus "Pig" Robbins, la batteria di Eddie Bayers, il violino
di Stuart Duncan, sono tra le tante presenze che indicano il radicale
cambiamento, musicisti della Nashville che conta, gente che ha suonato
al fianco di molte stellette del country contemporaneo. Steel guitars,
mandolini, archi, intere sezioni fiati che fanno apparentemente a pugni
con la fragilità sommessa del songwriter di I See a Darkness e
Master
& Everyone, con quella voce in perenne ricerca di un equilibrio.
Quello che una superficiale occhiata rischia di non cogliere è
invece la perfetta sintonia del barbuto Oldham con questo nuovo linguaggio
espressivo, che si guarda bene dallo scadere nel manierismo. Greatest
Palace Music è tutt'altro che superficiale: rivoltate secondo
i canoni di una classicità nashvilliana quasi dimenticata, queste
canzoni si vestono di un abito country-rock forbito, attraversato da una
squisita raffinatezza (e qui un plauso va anche alla produzione deluxe
di Mark Nevers, già con i Lambchop), la stessa che scorreva
in alcune leggendarie pietre miliari degli anni sessanta e settanta. Dentro
ci troverete infatti la profondità soul della Band (New Partner),
la beata nostalgia del Neil Young di Harvest (You Will Miss Me When
I Burn), i duetti indimenticabili fra Gram Parsons ed Emmylou Harris
(Agnes, Queen of Sorrow), le cadenze più rootsy e campagnole
(Ohio River Boat Song, I Send My Love to You) e quelle più
oscure e tenebrose della provincia americana (More Brother Rides,
Riding), addirittura un vibrante tocco western-swing (nella saltellante
I Am a Cinematographer)
Per tanti sarà uno shock inaccettabile, per altri invece la conferma
che Will Oldham è uno degli ultimi "classici" in circolazione.
La spocchia con cui buona parte della critica più snob ha accolto
questa operazione deve far riflettere sulla reale percezione che questi
signori hanno dell'american music.
(Fabio Cerbone)
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