The Great Crusades - Welcome to the Hiawatha Inn Glitterhouse 2004
 

Tenevamo in considerazione questo quartetto di Chicago da parecchio tempo, e l'idea che una definitiva maturazione fosse nell'aria era già balenata con il precedente Never Go Home, disco passato quasi del tutto inosservato, che tuttavia distingueva i Great Crusades dalla grande ressa dello stile Americana. La presenza di elementi tradizionali nel loro oscuro sound urbano (armonica, banjo, vioino) non riusciva infatti a scacciare l'anima noir del loro rock'n'roll, oggi chiaramente giunta allo scoperto. Welcome to the Hiawatha Inn compie dunque un balzo netto nei territori più elettrici del loro songwriting, bruciando intensamente sulla triade chitarra, basso, battteria e aggiungendo sfumature di piano e archi (Jake Brookman al cello e Mary Weingartner al violino), ininfluenti nella sostanza. Aveva visto con lungimiranza lo stimato critico Greil Marcus quando li definì un manipolo di Midwestern Gangsters, perchè la percezione scatenanta dalla voce al catrame di Brain Krumm e dalle chitarre affilate di Brain Leach è proprio quella di un rock'n'roll da vicoli bui, coltelli a serramanico e loschi figuri in cerca di guai. La spinta ad abbracciare una produzione più robusta, quasi garage nella sua essenzialità, è giunta dalla frequentazione dello Hiawatha Inn, vecchio bar della natia Chicago fondato negli anni '20 (oggi ribattezzato in un meno affascinate Pizza Lounge), in cui Krumm e soci devono avere assorbito dai muri i fantasmi della malavita organizzata. Da li provengono le rasoiate della'iniziale Who Makes the Voices Stop?, il frenetico sobbalzare di Spinnin' Head, una marcia country-rock a rotta di collo, o l'epica western della cruda Badlands, brani che tracciano un collegamento con il passato della band, mettendo in disparte però il volto più roots oriented e calcando la mano sui feedback delle chitarre. E' un grondante muro di elettricità e romanticismo quello che inseguono oggi i Great Crusades: a volte teppisti e straccioni del rock'n'roll (Hiawatha Inn, God Gave Me), altre inguaribili pasionari (il convulso crescendo di I Wish e St. Christopher), ma mai sguaiati e dimentichi di quei risvolti cantautorali (Pilsen, November) che accostano l'interpretazione di Brain Krumm al Tom Waits avvinazzato e da night club degli anni settanta (No Lover to Mourn e soprattutto la chiusura pianistica di I'll Be Over Here).
Concedendosi totalmente alle proprie passioni, i Great Crusades hanno liberato i loro istinti in un disco di torbido classic-rock americano, che cita, richiama, allude alla storia di questa musica conservando però una personalità assai riconoscibile rispetto a tanti colleghi contemporanei
(Fabio Cerbone)

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