Tenevamo in considerazione questo quartetto di Chicago da parecchio tempo,
e l'idea che una definitiva maturazione fosse nell'aria era già
balenata con il precedente Never
Go Home, disco passato quasi del tutto inosservato, che tuttavia
distingueva i Great Crusades dalla grande ressa dello stile Americana.
La presenza di elementi tradizionali nel loro oscuro sound urbano (armonica,
banjo, vioino) non riusciva infatti a scacciare l'anima noir del
loro rock'n'roll, oggi chiaramente giunta allo scoperto. Welcome
to the Hiawatha Inn compie dunque un balzo netto nei territori
più elettrici del loro songwriting, bruciando intensamente sulla
triade chitarra, basso, battteria e aggiungendo sfumature di piano e archi
(Jake Brookman al cello e Mary Weingartner al violino), ininfluenti nella
sostanza. Aveva visto con lungimiranza lo stimato critico Greil Marcus
quando li definì un manipolo di Midwestern Gangsters, perchè
la percezione scatenanta dalla voce al catrame di Brain Krumm e
dalle chitarre affilate di Brain Leach è proprio quella
di un rock'n'roll da vicoli bui, coltelli a serramanico e loschi figuri
in cerca di guai. La spinta ad abbracciare una produzione più robusta,
quasi garage nella sua essenzialità, è giunta dalla
frequentazione dello Hiawatha Inn, vecchio bar della natia Chicago fondato
negli anni '20 (oggi ribattezzato in un meno affascinate Pizza Lounge),
in cui Krumm e soci devono avere assorbito dai muri i fantasmi della malavita
organizzata. Da li provengono le rasoiate della'iniziale Who Makes
the Voices Stop?, il frenetico sobbalzare di Spinnin' Head,
una marcia country-rock a rotta di collo, o l'epica western della cruda
Badlands, brani che tracciano un collegamento con il passato della
band, mettendo in disparte però il volto più roots oriented
e calcando la mano sui feedback delle chitarre. E' un grondante muro di
elettricità e romanticismo quello che inseguono oggi i Great Crusades:
a volte teppisti e straccioni del rock'n'roll (Hiawatha Inn, God
Gave Me), altre inguaribili pasionari (il convulso crescendo di I
Wish e St. Christopher), ma mai sguaiati e dimentichi di quei
risvolti cantautorali (Pilsen, November) che accostano l'interpretazione
di Brain Krumm al Tom Waits avvinazzato e da night club degli anni settanta
(No Lover to Mourn e soprattutto la chiusura pianistica di I'll
Be Over Here).
Concedendosi totalmente alle proprie passioni, i Great Crusades hanno
liberato i loro istinti in un disco di torbido classic-rock americano,
che cita, richiama, allude alla storia di questa musica conservando però
una personalità assai riconoscibile rispetto a tanti colleghi contemporanei
(Fabio Cerbone)
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