Avranno
vita facile ora i detrattori, sempre più numerosi a quanto pare, del buon
Conor Oberst, alias Bright Eyes, che non contento delle "chiacchiere"
suscitate intorno alla sua doppia uscita di inizio 2005 (l'acustico I'm
Wide Awake it's Morning e il modernista Digital Ash in a Digital Urn),
chiude un anno personalmente trionfale con la fedele testimonianza live
del recente tour. Motion Sickness è dunque il terzo capitolo
nel giro di pochi mesi: in quanto a spirito di iniziativa il buon Oberst
gareggia solo con Ryan Adams e da quest'ultimo sembra avere ereditato
anche quel terribile gioco al massacro, che spesso scaturisce dalla spocchia
degli "indie rockers" ad oltranza. C'è una frase che sibillina si insinua
nei primi secondi di questo Motion Sickness: "Conor, I love You!" grida
una voce femminile, simbolo del successo di superficie, la mannaia del
circo pop che ha travolto il leader dei Bright Eyes in questi ultimi due
anni. È il prezzo da pagare per avere "addomesticato" e resa adulta la
propria musica, trasfigurandola nelle dolcezze country folk dell'ultimo,
peraltro delizioso I'm
Wide Awake it's Morning. Conor Oberst ha deciso di diventare
adulto, di duettare con la regina country Emmylou Harris, di sfidare i
classici della folk music sullo stesso terreno, e di concedersi persino
un'invettiva politica e polemica (il folk protestatario di When the
President Talks to God, qui inclusa). Qualcuno continua invece a guardare
il dito puntato e non l'oggetto, ma la musica di Oberst, pur lasciando
per strada la struttura più bizzarra e lo-fi degli esordi, tanto cara
ai fan delle prima ora, conserva una fragile bellezza che solo queste
esibizioni possono confermare. Motion Sickness semmai potrà essere criticato
in sè e per sè a causa della sua natura un po' "secondaria",
ininfluente: i sei episodi tratti da I'm Wide Awake it's Morning (su tutti
Road to Joy e la struggente Landlocked Blues) non aggiungono
infatti nulla di essenziale a quanto già detto nel disco stesso, seppure
la solenne tenuta folk rock della band (sette elementi con tanto di steel
e tromba) non possa passare sotto silenzio. E' probabilmente il vecchio
materiale, rimesso a nuovo dall'andatura rootsy del gruppo, a destare
qualche piacevole sorpresa: il country rock bislacco di Make War,
oppure la tromba e il western feeling di Scale e Method Acting.
Un disco-omaggio per i più affezionati sostenitori dunque, tanto più che
regala due cover, la saltellante filastrocca folkie di Mushaboom
(brano di Feist) e la meno riuscita The Biggest Lie di Elliott
Smith. La fotografia fedele, anche se un poco auto-celebrativa, di un
musicista all'apice dell'ispirazione.
(Fabio Cerbone)
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