Bright Eyes - Motion Sickness   Saddle Creek 2005
inserito 05/12/2005

Avranno vita facile ora i detrattori, sempre più numerosi a quanto pare, del buon Conor Oberst, alias Bright Eyes, che non contento delle "chiacchiere" suscitate intorno alla sua doppia uscita di inizio 2005 (l'acustico I'm Wide Awake it's Morning e il modernista Digital Ash in a Digital Urn), chiude un anno personalmente trionfale con la fedele testimonianza live del recente tour. Motion Sickness è dunque il terzo capitolo nel giro di pochi mesi: in quanto a spirito di iniziativa il buon Oberst gareggia solo con Ryan Adams e da quest'ultimo sembra avere ereditato anche quel terribile gioco al massacro, che spesso scaturisce dalla spocchia degli "indie rockers" ad oltranza. C'è una frase che sibillina si insinua nei primi secondi di questo Motion Sickness: "Conor, I love You!" grida una voce femminile, simbolo del successo di superficie, la mannaia del circo pop che ha travolto il leader dei Bright Eyes in questi ultimi due anni. È il prezzo da pagare per avere "addomesticato" e resa adulta la propria musica, trasfigurandola nelle dolcezze country folk dell'ultimo, peraltro delizioso I'm Wide Awake it's Morning. Conor Oberst ha deciso di diventare adulto, di duettare con la regina country Emmylou Harris, di sfidare i classici della folk music sullo stesso terreno, e di concedersi persino un'invettiva politica e polemica (il folk protestatario di When the President Talks to God, qui inclusa). Qualcuno continua invece a guardare il dito puntato e non l'oggetto, ma la musica di Oberst, pur lasciando per strada la struttura più bizzarra e lo-fi degli esordi, tanto cara ai fan delle prima ora, conserva una fragile bellezza che solo queste esibizioni possono confermare. Motion Sickness semmai potrà essere criticato in sè e per sè a causa della sua natura un po' "secondaria", ininfluente: i sei episodi tratti da I'm Wide Awake it's Morning (su tutti Road to Joy e la struggente Landlocked Blues) non aggiungono infatti nulla di essenziale a quanto già detto nel disco stesso, seppure la solenne tenuta folk rock della band (sette elementi con tanto di steel e tromba) non possa passare sotto silenzio. E' probabilmente il vecchio materiale, rimesso a nuovo dall'andatura rootsy del gruppo, a destare qualche piacevole sorpresa: il country rock bislacco di Make War, oppure la tromba e il western feeling di Scale e Method Acting. Un disco-omaggio per i più affezionati sostenitori dunque, tanto più che regala due cover, la saltellante filastrocca folkie di Mushaboom (brano di Feist) e la meno riuscita The Biggest Lie di Elliott Smith. La fotografia fedele, anche se un poco auto-celebrativa, di un musicista all'apice dell'ispirazione.
(Fabio Cerbone)

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