Visto che bazzicate da queste parti dovreste saperlo meglio di me: tra
gli appassionati di musica spesso la sensazione più ricercata non è quella
della sorpresa, il brivido elettrico procurato da un'oggettiva novità
o da una scoperta sensazionale. C'è ovviamente un altro tipo di brivido,
più intimo e familiare anche se non meno intenso, che deriva dal trovarsi
faccia a faccia con abitudini, costanti tematiche e sonorità familiari
magari tanto apprezzate in passato. A questo punto, cioè di fronte al
consueto, può scattare un meccanismo di identificazione e complicità che
ci porta ad apprezzare in maniera incondizionata anche certi canoni ormai
desueti (talvolta solo un po' fuori moda), soprattutto se riletti con
freschezza e vivacità. Tutto questo per dire che un disco come quello
di Jude Johnstone, a seconda della prospettiva da cui lo si guarda,
potrebbe brillare come oro oppure annerire le mani come il carbone. Lei
non è certo una sprovveduta. On A Good Day è soltanto il
suo secondo album (Coming Of Age è faccenda di due anni fa), ma i più
avveduti tra voi sapranno che la sua Unchained aveva avuto l'onore
di intitolare il secondo album di Johnny Cash in casa American Recordings
e altri suoi brani autografi sono stati portati al successo da Trisha
Yearwood, Jennifer Warnes o Stevie Nicks. Comunque è una signora californiana
sui quarant'anni, benedetta dalla presenza di due figli e con un debito
d'ispirazione grosso così nei confronti di quanto cantato e registrato
durante gli anni '70 da Jackson Browne e i suoi amici west-coasters. Debito
che a quanto pare si è tradotto in mutua ammirazione, dacché ad accompagnare
Jude in questa seconda avventura solista ci sono, fra gli altri, Bonnie
Raitt, Julie Miller e Rodney Crowell, tutta gente la
cui stima, com'è noto, non viene regalata al primo arrivato. E del resto
le canzoni di On A Good Day sembrano proprio saltar fuori dal cuore grande
degli anni '70, da quell'epoca di autori, cantautori e altri patiti della
chitarra che, scoperta l'elettrificazione, hanno saputo dar voce ai sogni
e alle speranze di un'intera generazione. Posso assicurarvi che durante
Hold On, che già di suo è una meraviglia di rock-ballad e di rifinitura
nell'arrangiamento, quando sentiamo sbucare l'ugola inconfondibile di
Jackson Browne ai cori, be', l'emozione è fortissima, anche perché si
tratta di un brano che davvero non avrebbe sfigurato tra i solchi di The
Pretender. Stesso discorso per una Long Way Back che avrebbe impreziosito
un disco qualsiasi tra i migliori di Crosby & Nash, per la notturna Deep
Water e per le tribolazioni personali cantate nella sublime Hard
Lesson. Certo, nulla che Brother Jackson non abbia già interpretato,
e probabilmente meglio, all'incirca trent'anni fa. Ma che diamine, che
c'è di male, in fondo, nel ritornare con un po' di dolcezza e onesta pietà
sui propri passi di gioventù?
Chi è alla ricerca della novità a ogni costo passi pure oltre. Chi invece
ritiene di non sentirsi in colpa ad indugiare ancora un po' sull'album
dei ricordi non si dimentichi di dare una sbirciatina anche qui.
(Gianfranco Callieri)
www.bojakrecords.com
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