Calvin Russell - In Spite of It All SPV 2005
inserito 20/04/2005

Scherzando con un amico, non ho potuto fare a meno di chiedermi se Calvin Russell viva davvero come lo vedete ritratto nella copertina di questo nuovo album: un cowboy solitario e cogitabondo, sei corde a tracolla e un qualche desolato canyon in veste di casa. Viene il dubbio che rispetto a simili riferimenti In Spite Of It All si spinga un po' troppo in là. Chiunque nutra il sospetto che da qualche disco a questa parte Calvin Russell - il texano dagli occhi di ghiaccio - nulla abbia tolto né aggiunto al canone del proprio "fare musica", be', qui non potrà trovare altro se non conferme alla sua impressione, per di più condito dalla solita pletora di strizzate d'occhio a un immaginario tipicamente western - cappelli, stivali, serpenti, cavalli, deserto, prateria - che non rasenta bensì si tuffa a volo libero nel patetico, nella macchietta, nel grottesco. C'è inoltre da chiedersi, poi, se vista la recente domiciliazione presso casa Spv (marchio tedesco aduso a ospitare metallari in pensione, relitti dell'esoterismo e satanisti d'ogni genere) il buon Calvin non si sia sentito in dovere di imprimere una vigorosa quanto discutibile sterzata in chiave hard al repertorio: Voodoo River e Live Till I Die, canzoni in sé e per sé non disprezzabili, animate come sono da un robusto drive stonesiano (seppur tendente al rock-blues di grana grossa), vengono massacrate sotto il peso di arrangiamenti alla Quireboys che lasciano esterrefatti tanto sono fuori luogo rispetto al milieu dell'artista. L'anfetaminico boogie dell'iniziale Oval Room, un brano di Blaze Foley più convincente sotto il profilo della satira politica piuttosto che quello del songwriting, regala discrete vibrazioni, ma come il mid-tempo scartavetrato di Just Like L.A. non sembra differire granché da quanto espresso da Calvin in altre sedi, e con risultati neanche paragonabili. La title-track, col suo ruvido country-rock elettrificato, oppure la conclusiva Cans, pescata nel repertorio del compaesano Rich Minus, tentano la carta di un traballante ritorno ai più consoni sentieri della tradizione (comunque sempre riletta attraverso scossoni decisamente rock) senza però spiccare per verve interpretativa o freschezza nell'approccio. Mi rendo conto di avere citato sei brani, dei quali due soltanto recano in calce l'autografo del texano; segnale, anche questo, di un urgenza creativa che si faticherebbe a definire incontenibile. Calvin Russell ci ha provato, in fondo: ha sfoderato un'immagine di copertina che è più o meno la copia carbone di quella dell'album omonimo del '97, ha provato a incidere coi volumi più alti del solito per mascherare l'evidente aridità della vena creativa e ha nuovamente confezionato il tutto con la stinta retorica del westerner romantico e sincero. Tutto legittimo, per carità, i processi alle intenzioni preferisco lasciarli altrove. Ma è certo che dopo un disco simile, nadir d'una lunga teoria di lavori sempre più raccogliticci, la pratica di Calvin Russell, per quanto mi riguarda, è da considerarsi definitivamente archiviata.
(Gianfranco Callieri)

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