Scherzando
con un amico, non ho potuto fare a meno di chiedermi se Calvin Russell
viva davvero come lo vedete ritratto nella copertina di questo nuovo album:
un cowboy solitario e cogitabondo, sei corde a tracolla e un qualche desolato
canyon in veste di casa. Viene il dubbio che rispetto a simili riferimenti
In Spite Of It All si spinga un po' troppo in là. Chiunque
nutra il sospetto che da qualche disco a questa parte Calvin Russell -
il texano dagli occhi di ghiaccio - nulla abbia tolto né aggiunto al canone
del proprio "fare musica", be', qui non potrà trovare altro se non conferme
alla sua impressione, per di più condito dalla solita pletora di strizzate
d'occhio a un immaginario tipicamente western - cappelli, stivali, serpenti,
cavalli, deserto, prateria - che non rasenta bensì si tuffa a volo libero
nel patetico, nella macchietta, nel grottesco. C'è inoltre da chiedersi,
poi, se vista la recente domiciliazione presso casa Spv (marchio tedesco
aduso a ospitare metallari in pensione, relitti dell'esoterismo e satanisti
d'ogni genere) il buon Calvin non si sia sentito in dovere di imprimere
una vigorosa quanto discutibile sterzata in chiave hard al repertorio:
Voodoo River e Live Till I Die, canzoni in sé e per sé non
disprezzabili, animate come sono da un robusto drive stonesiano (seppur
tendente al rock-blues di grana grossa), vengono massacrate sotto il peso
di arrangiamenti alla Quireboys che lasciano esterrefatti tanto sono fuori
luogo rispetto al milieu dell'artista. L'anfetaminico boogie dell'iniziale
Oval Room, un brano di Blaze Foley più convincente sotto il profilo
della satira politica piuttosto che quello del songwriting, regala discrete
vibrazioni, ma come il mid-tempo scartavetrato di Just Like L.A.
non sembra differire granché da quanto espresso da Calvin in altre sedi,
e con risultati neanche paragonabili. La title-track, col suo ruvido country-rock
elettrificato, oppure la conclusiva Cans, pescata nel repertorio
del compaesano Rich Minus, tentano la carta di un traballante ritorno
ai più consoni sentieri della tradizione (comunque sempre riletta attraverso
scossoni decisamente rock) senza però spiccare per verve interpretativa
o freschezza nell'approccio. Mi rendo conto di avere citato sei brani,
dei quali due soltanto recano in calce l'autografo del texano; segnale,
anche questo, di un urgenza creativa che si faticherebbe a definire incontenibile.
Calvin Russell ci ha provato, in fondo: ha sfoderato un'immagine di copertina
che è più o meno la copia carbone di quella dell'album omonimo del '97,
ha provato a incidere coi volumi più alti del solito per mascherare l'evidente
aridità della vena creativa e ha nuovamente confezionato il tutto con
la stinta retorica del westerner romantico e sincero. Tutto legittimo,
per carità, i processi alle intenzioni preferisco lasciarli altrove. Ma
è certo che dopo un disco simile, nadir d'una lunga teoria di lavori sempre
più raccogliticci, la pratica di Calvin Russell, per quanto mi riguarda,
è da considerarsi definitivamente archiviata.
(Gianfranco Callieri)
www.spv.de
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