My
Morning Jacket
Okonokos
[ATO/
RCA 2006]
   1/2
Nel booklet di questo doppio dal vivo, i cinque My Morning Jacket si
presentano con altrettante, fittizie micro-biografie che, oltre a volerli
tutti morti all'età di 27 anni (!), ne ripercorrono la carriera tra invenzioni
e dati reali. Ognuna di esse culmina nella notizia "until joining", "until
founding" o "signed on with" My Morning Jacket, con la band di Louisville,
Kentucky, ogni volta ascritta a un genere differente: per Two-Tone
Tommy (basso) sono un "country-rock outfit", per Patrick Hallahan
(batteria) un "gruppo space-rock", per Carl Broemel (chitarra)
"prog-rockers", per Bo Koster (tastiere) fanno "musica industriale",
per Jim James (voce e chitarra) si danno all'"indie-rock". Il bello
è che ognuna di queste schede, pur senza descrivere in modo esaustivo
tutti gli impulsi, gli stimoli e le illuminazioni di cui si nutre la musica
della band, ha singolarmente ragione da vendere. Okonokos
alza di parecchi gradini la posta in gioco, catapultando a pieno diritto
i My Morning Jacket (qui impegnati a suonare come un'incredibile via di
mezzo tra il galoppo febbricitante dei Crazy Horse e i Pink Floyd del
primo disco di Ummagumma [1969]) nell'olimpo delle grandi formazioni della
contemporaneità e inchiodandosi saldamente nel ristretto novero dei live-album
davvero impedibili degli ultimi quindici anni. Doveste anche conoscere
i loro lavori in studio, di certo non potete essere preparati all'orgia
di suoni e visioni che si consuma nelle due ore e rotte di Okonokos (peraltro
uscito anche come quasi omonimo dvd col titolo di Okonokos: The Live Concert,
con 20 canzoni in luogo delle 21 del doppio cd, una scaletta leggermente
diversa e uno strampalato corredo scenico di costumi e scenografie da
freak-show ottocentesco), a canzoni che si dilatano e si comprimono ora
in crescendi wagneriani ora in scariche punk'n'roll, a un primo disco
che gioca con repentine dilatazioni "spacey" attraverso uno strepitoso
senso del dettaglio o a un secondo che sposa l'attitudine irregolare da
jam band con l'incedere assassino di ritmiche e melodie. La carne al fuoco
è talmente tanta che non si sa nemmeno cosa segnalare, poiché preferendo
il ciclone stonesiano di Dancefloors, i sublimi ralenti deadiani
(con detonazione centrale e finale) di Dondante, il tempestoso
rifferama di I Think I'm Going To Hell, il rock americano al 100%
di Xmas Curtain, l'amplificazione convulsa di Steam Engine,
il reggae schizzato di What A Wonderful Man, l'apoteosi animalesca
di Mahgeetah o il rigore country di Golden a qualsiasi altro
episodio si rischia di non rendere giustizia a un album che, ascolto dopo
ascolto, non cessa di offrire sorprese, collocandosi in una divisione
che per quantità e qualità non è poi così lontana dai migliori live dei
Little Feat o della gloriosa fratellanza Allman. Un disco semplicemente
imperdibile.
(Gianfranco Callieri)
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