inserito 08/01/2006

My Morning Jacket
Okonokos
[
ATO/ RCA 2006]

1/2

Nel booklet di questo doppio dal vivo, i cinque My Morning Jacket si presentano con altrettante, fittizie micro-biografie che, oltre a volerli tutti morti all'età di 27 anni (!), ne ripercorrono la carriera tra invenzioni e dati reali. Ognuna di esse culmina nella notizia "until joining", "until founding" o "signed on with" My Morning Jacket, con la band di Louisville, Kentucky, ogni volta ascritta a un genere differente: per Two-Tone Tommy (basso) sono un "country-rock outfit", per Patrick Hallahan (batteria) un "gruppo space-rock", per Carl Broemel (chitarra) "prog-rockers", per Bo Koster (tastiere) fanno "musica industriale", per Jim James (voce e chitarra) si danno all'"indie-rock". Il bello è che ognuna di queste schede, pur senza descrivere in modo esaustivo tutti gli impulsi, gli stimoli e le illuminazioni di cui si nutre la musica della band, ha singolarmente ragione da vendere. Okonokos alza di parecchi gradini la posta in gioco, catapultando a pieno diritto i My Morning Jacket (qui impegnati a suonare come un'incredibile via di mezzo tra il galoppo febbricitante dei Crazy Horse e i Pink Floyd del primo disco di Ummagumma [1969]) nell'olimpo delle grandi formazioni della contemporaneità e inchiodandosi saldamente nel ristretto novero dei live-album davvero impedibili degli ultimi quindici anni. Doveste anche conoscere i loro lavori in studio, di certo non potete essere preparati all'orgia di suoni e visioni che si consuma nelle due ore e rotte di Okonokos (peraltro uscito anche come quasi omonimo dvd col titolo di Okonokos: The Live Concert, con 20 canzoni in luogo delle 21 del doppio cd, una scaletta leggermente diversa e uno strampalato corredo scenico di costumi e scenografie da freak-show ottocentesco), a canzoni che si dilatano e si comprimono ora in crescendi wagneriani ora in scariche punk'n'roll, a un primo disco che gioca con repentine dilatazioni "spacey" attraverso uno strepitoso senso del dettaglio o a un secondo che sposa l'attitudine irregolare da jam band con l'incedere assassino di ritmiche e melodie. La carne al fuoco è talmente tanta che non si sa nemmeno cosa segnalare, poiché preferendo il ciclone stonesiano di Dancefloors, i sublimi ralenti deadiani (con detonazione centrale e finale) di Dondante, il tempestoso rifferama di I Think I'm Going To Hell, il rock americano al 100% di Xmas Curtain, l'amplificazione convulsa di Steam Engine, il reggae schizzato di What A Wonderful Man, l'apoteosi animalesca di Mahgeetah o il rigore country di Golden a qualsiasi altro episodio si rischia di non rendere giustizia a un album che, ascolto dopo ascolto, non cessa di offrire sorprese, collocandosi in una divisione che per quantità e qualità non è poi così lontana dai migliori live dei Little Feat o della gloriosa fratellanza Allman. Un disco semplicemente imperdibile.
(Gianfranco Callieri)

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