inserito
il 02/03/2007
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Ry
Cooder Ry Cooder è l'uomo
delle sfide. Non si cura del mercato: spesso, come nel caso del Buena
Vista Social Club, il mercato lo fa. Ry nella sua carriera ne ha percorse
di strade, dal blues degli esordi con Taj Mahal alle escursioni soliste
ricche di tradizione e "lezioso" talento (l'esordio del 1970,
Into The Purple Valley e Paradise And Lunch), alle colonne sonore memorabili
(Paris, Texas e The Long Riders), per proseguire su diversioni dirette
alla terra del Sol Levante (singolare l'apparizione live a Nara City nel
maggio del 1994), all'Africa (gran bel lavoro quello fatto con Ali Farka
Toure per Talking Timbuktu) e al fascino cubano, che ha dato notorietà
ad una serie di musicisti attempati. Con Chàvez
Ravine Ry è tornato a modo suo in terra Californiana. Quel
disco, praticamente un concept album, parlava di un vecchio quartiere
della Città degli Angeli raso al suolo per far posto ad uno stadio di
baseball. Nel 2004, durante le ultime sessioni di missaggio di Chàvez
Ravine il nostro venne travolto da un vento nostalgico che soffiava dall'entroterra,
dalle lande desolate dell'Oklahoma, portando con se tutti i ricordi di
un'infanzia passata ad ascoltare i grandi bluesmen e folk singers, quali
Leadbelly, Woody Guthrie e Pete Seeger. Quasi mezzo secolo fa, grazie
agli insegnamenti di un amico di famiglia, Ry apprese i rudimenti della
chitarra, ascoltando anche Robert Johnson e Skip James. Sempre grazie
a quel "sovversivo" amico dei Cooder, il ragazzo trovò in quella musica
spunti musicali e sociali che oggi riaffiorano grazie a My Name
Is Buddy, testamento folk, di Appalachian Music, ma non solo.
Stavolta Ry non detta le regole al mercato (è stato battuto, almeno in
ambito mainstream, da Springsteen), seppure il suo salto all'indietro
sia all'insegna di canoni puri, old style e senza troppe smancerie. My
Name Is Buddy ricorda, se ce ne fosse nuovamente bisogno, quanto la musica
Irlandese sia stata determinante nel forgiare il folk Statunitense, tant'è
che il Chieftains Paddy Moloney è anch'esso della partita (in Suitcase
In My Hand). Nel disco compaiono anche i fratelli Seeger, il
più noto Pete (solo in J. Edgar) e il più giovane Mike
(ospite in diverse tracce). La presenza di Pete è il (mio) pretesto per
entrare nel merito delle liriche, tutte a sfondo sociale. Sono frecciate
indirizzate al cuore di una working class Americana prossima all'estinzione,
vuoi per l'atteggiamento snob di chi non ama definirsi operaio,
vuoi per la mancanza di sindacati forti, attivi, e sensibilizzanti. Appurata
la bontà degli argomenti, il Ry Cooder musicista apre scenari folkloristici
decisamente più ampi rispetto a quelli della festosa Seeger Session Springstee-iana.
Spesso le melodie di Cooder affrontano stili differenti: nelle fasi iniziali
la presenza di chitarra acustica, banjo e mandolino non offre un'ampia
gamma di soluzioni. Così, ad elevarsi nel marasma delle diciassette tracce
rimangono episodi di spessore come Christmas In Southgate, Footsprints
In The Snow (due walzer con l'aggiunta della batteria e con la fisarmonica
a dettare i tempi), Hank Williams (un country che merita anche
solo per il titolo) e la ballad Farm Girl. Ma soprattutto ci sono
le esaltanti Sundown Town (blues organico cantato da Bobby King
e Terry Evans), My Name Is Buddy, Red Cat Till I Die (due
blues viscerali - il primo è più voodoo ed inquietante - che oggi potremmo
definire in stile Fat Possum), Three Chords And The Truth (un rock
and roll distorto) e la conclusiva There's A Bright Side Somewhere,
uno spiritual che risorge dalle acque del Mississippi. In definitiva,
le capacità di Cooder sono indiscutibili e le sue ampie vedute musicali
gli hanno consentito di tornare senza vergogna, e con molto stile, alle
origini. Vista la visione tutt'altro che festaiola del mainstream pop
Americano e non solo, non mi aspetto grossi apprezzamenti da parte del
grande pubblico, anche se spero di sbagliarmi. Certo è che diciassette
tracce (settanta minuti settanta) sono davvero una sfida. |