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21/09/2007
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![]() Jeffrey
Halford and The Healers
Tra il blues della Baia
e il revival rockabilly che conobbe una fugace stagione all'inizio degli
anni 80, Jeffrey Halford è un songwriter e chitarrista di San Francisco
cresciuto dentro l'anima dell'American music, incrociando radici bianche
e nere e tenendo ferma la stella polare del rock'n'roll. Nulla di nuovo
e trascendentale, soltanto una manciata di buone canzoni, una carriera
partita come spesso accade dalla strada, da autentico busker, ed un seguito
sempre crescente che lo ha portato ad esibirsi quale spalla di Los Lobos,
Dave Alvin, Guy Clark e altri eroi di queste pagine. Broken Chord
è il sesto giro in carriera e prosegue il positivo riscontro artistico
del predecessore Railbirds,
già ampiamente raccontato da queste parti. Tenendo fede al sodalizio con
gli Healers (Rich Goldstein alle chitarre, Paul Olguin al basso
e Jim Norris dietro i tamburi), ma allargando la squadra con qualche comparsa
tutt'altro che secondaria (l'organo inconfondibile di Augie Meyers
nel rendez vous tex mex di In a Dream, e ancora le chitarre di
Bruce Kaphan, anche produttore), la nuova raccolta si attiene all'essenzialità
di questa musica (trentasei minuti e non un secondo di più o quasi) ma
affina l'esperienza in fase di arrangiamento. Non è roots rock di grana
grossa quello di Jeffery Halford, semmai un melting pot affascinante
di southern rock, blues memphisiano e spruzzate country da border che
sancisce al sua crescita di autore. Un piccolo disco ed una voce in gran
spolvero (che ricorda a tratti Bocephus King) che racconta storie credibili
dai margini dell'America: si potrebbe partire dalla sinuosa Lousiana
Man e dalle ombre fosche di Katrina, attraversata dall'armonica di
Jellyroll Johnson e da pochi concetti ma assai precisi…"and
a government that had no shame/ waiting on a rescue that never came".
Il tenore di Broken Chord resta ancorato a questo canovaccio, regalando
così un distillato di rock'n'roll dall'aria perdente e bluesy, qualcosa
sulla linea di personaggi dimenticati e minori quali Kevin Gordon e RB
Morris. Ricordano i dischi di questi ultimi il cuore pulsante "american
graffiti" in Rock'n'Fire, Running Crazy e nella sintomatica
Rockabilly Bride, svolazzanti brani resi succulenti da un lodevole
lavoro al piano ed organo (Skip Edwards e lo scatenato John
R Burr), oppure il tradizionalismo blues, per chitarra acustica e
slide di Ninth Ward. Più aguzzo e notturno invece l'incedere di
Dead Man's Hand e Chicken Bones Jones, gli episodi più maturi
e interessanti del disco, qui davvero vicini alla sensibilità del citato
Bocephus King, perlomeno quello degli esordi. Tutto questo nonostante
Jeffrey Halford non rinunci alla purezza del suo songwriting: più folk
e meno elettricità in 10 Minutes e Two King. Un laborioso
artigiano ed un insospettabile autore, Halford è uno di quei minori che
potrebbero fare la felicità di molti appassionati. |